Il tema del rapporto centro-periferia è declinato quasi sempre in termini ideologici. Alcuni esibiscono certezze granitiche secondo le quali a priori in qualsiasi ambito di policy sarebbe preferibile il massimo di devoluzione agli enti locali o intermedi in nome della vicinanza al cittadino che sarebbe sempre risolutiva da sola oppure, al contrario, altri ritengono che sarebbe preferibile la centralizzazione perché da essa discenderebbe la sicurezza del godimento omogeneo dei diritti sul territorio. Accanto a queste certezze fisse di alcuni interlocutori se ne affiancano altre per così dire pendolari: a seconda della fase politica, della diffusione di questo o quel dato, le stesse persone passano da un autonomismo radicale quasi secessionista a un centralismo estremo.

La prima operazione culturale e politica da fare è quindi liberarsi di questi pre-giudizi e di valutare attentamente sulla base della policy specifica e del contesto storico-sociale in cui si opera. È chiaro ad esempio che in ambito sanitario l’attenzione al personale e agli utenti è un elemento chiave per realizzare un buon servizio, ma questo di per sé, come sostiene Cittadinanzattiva che quella vicinanza pratica attivamente, non sostituisce certo i livelli essenziali delle prestazioni o una chiara imputabilità delle decisioni; allo stesso tempo è evidente che il sistema di istruzione deve veicolare un’impostazione che tenga unito il Paese, ma la sua centralizzazione non impedisce affatto che non si creino disparità territoriali persino superiori a quelle che vediamo nella sanità.

Il problema non è quindi di tenere il Titolo Quinto così com’è o, all’opposto, di tornare al testo previgente, ma piuttosto di completarlo. Cosa gli manca per funzionare? Una clausola di supremazia chiara e trasparente analoga a quella che hanno tutti gli Stati non solo regionali ma anche federali al posto di quella surrettizia e dagli esiti fatalmente incerti che la Corte si è vista costretta a inventare per via giurisprudenziale per superare un vuoto.
È il senso della proposta che ho depositato alla Camera, su suggerimento del collega Fiano e che ha poi raccolto il consenso anche dei deputati Michele Bordo, Vincenza Bruno Bossio, Laura Cantini, Lucia Ciampi, Rosa Maria Di Giorgi, Stefano Fassina, Gian Mario Fragomeli, Davide Gariglio, Romina Mura, Pietro Navarra, Stefania Pezzopane, Fausto Raciti, Andrea Rossi, Raffaele Topo, Antonio Viscomi.

Per evitare che l’introduzione della clausola determini una curvatura centralistica del sistema, è opportuno bilanciarne l’istituzione con la costituzionalizzazione del sistema delle conferenze (che hanno acquisito un ruolo importante ma finora solo a livello legislativo) e con il vincolo di un parere preventivo necessario della Conferenza Stato-Regioni quando il Governo intenda far valere la clausola di supremazia.  Essa potrebbe essere scritta come già accadeva nel progetto bocciato nel referendum e che ricalcava il testo costituzionale tedesco: «Su proposta del Governo e previo parere della Conferenza permanente tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano, la legge dello Stato può intervenire in materie non riservate alla legislazione esclusiva quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale».

Al di là, comunque, della formulazione, che può essere ulteriormente affinata, conta il senso: in un’area di policy come questa il ruolo reciproco di Stato e Regioni non può essere costruito a compartimenti stagni.  Nessuno può, ad esempio, pensare che in emergenza, ove necessario, esperite tutte le possibilità di leale cooperazione, alla fine non ci debbano essere scelte omogenee e unitarie. Non è la stessa cosa dei poteri commissariali previsti dall’articolo 120 che intervengono quando sono violate norme o vi sono condizioni di pericolo: quelli sono rimedi nei casi in cui un potere non è usato bene. Qui invece si tratta dell’impianto complessivo, di non ritenere rigidi i confini sulle sfere di competenza. È un passaggio decisivo che forse appare meno mobilitante di facili ricette ideologiche, ma che nondimeno è più serio e più efficace.