Il presidenzialismo è destinato a polarizzare le culture politiche. In attesa di uno scontro frontale, per la difesa della Costituzione, o per la sua eversione formale da troppo tempo rimandata, già si affilano le armi. Per la destra il capo solo che comanda, sciolto dai lacciuoli procedurali, è una prioritaria questione di identità. E rappresenta soprattutto un’occasione storica per rompere con l’onda divenuta anomala dell’antifascismo. Le opposizioni sono contrarie a quella che denunciano come una pericolosa deriva plebiscitaria.

Lo sono, però, più per una questione tattica che per una coerente cultura delle regole. La sinistra non è stata sempre lineare nel tema delle grandi riforme istituzionali. E se oggi contrasta una mutazione della forma di governo targata Meloni-Salvini, lo fa soprattutto per ragioni contingenti. Giuseppe Conte, che già nel 2019 vagheggiava “una legislatura costituente”, sognava il presidenzialismo per determinare un cambio “di sistema” in vista della stabilità e governabilità (intervistato da La7, nel giugno del 2021, diceva: “Tra le prime cose che farò se mi insedierò come leader io proporrò agli altri leader di ragionare su una riforma costituzionale che possa rafforzare il nostro sistema”. “Se proporrò il presidenzialismo? Non me lo faccia anticipare”. “Qui c’è un problema di sistema”), e invidiava l’esempio straniero di “capi di Stato e di governo che rimangono in carica per decenni” (La Stampa, novembre 2021).

La sua presenza al “Natale dei conservatori” di Atreju nel 2021 fu letta proprio come una chiara manifestazione di disponibilità verso i disegni meloniani di modifica istituzionale. Il leader del Movimento, per la verità, in un’intervista apparsa sull’edizione veneta del Corriere della sera (agosto 2022), mostrava anche delle aperture all’altro cavallo di battaglia costituzionale della coalizione di destra radicale poi insediatasi al governo, l’autonomia differenziata (“ritengo che l’autonomia richiesta dai cittadini veneti sia un’istanza legittima”): i suoi rimpianti, infatti, erano per “l’opportunità di realizzare l’autonomia” sfumata ai tempi del Conte I, quando il progetto di riforma “scritto nel programma comune” naufragò tra i balli del Papeete.

Su queste tematiche, però, andrebbero banditi i tatticismi e le palinodie. In attesa che la battaglia si scaldi, si avvertono già i primi riposizionamenti. Non giova molto alla causa di un serio dibattito istituzionale il ricorso a ricostruzioni di comodo, suscettibili peraltro di una facile smentita con una semplice verifica delle cronache del decennio. In un recente colloquio con La Stampa (26 gennaio) Romano Prodi sceglie la parte giusta della contesa (“sono un anti-presidenzialista totale”), ma si concede delle amnesie che non sono tollerabili in un confronto delle idee. Il “parlamentarista convinto”, che a ragione guarda “con molta preoccupazione” alle pericolose riforme della destra, omette un elemento importante della sua recente parabola politica. Con un’intervista al Messaggero del 30 maggio 2013 egli scatenò un accanito dibattito a sinistra. Prodi auspicava “un governo forte e stabile”, con una maggioranza “finalmente in grado di prendere decisioni”.

La ricetta magica, per garantire appieno continuità d’azione agli esecutivi, era proprio quella di inghiottire la “medicina francese” che oggi il fondatore dell’Ulivo opportunamente stigmatizza. Per non lasciare incertezze interpretative circa il suo orientamento costituzionale, Prodi precisava: “Non vi è dubbio che il sistema più adatto per ottenere questo obiettivo sia il doppio turno alla francese, semipresidenzialismo compreso”. L’idea era quella di inseguire il governo di legislatura secondo l‘argomento per cui il mandato elettorale, senza più il pericolo di agguati trasformisti, deve risolvere l’enigma della governabilità. Poco importa che il regime politico più stabile sia quello parlamentare tedesco e che in Francia, oltre all’iper-presidenzialismo (coincidenza cromatica tra maggioranza parlamentare e inquilino dell’Eliseo), si registrino casi di coabitazione (presenza di un presidente e di un primo ministro di colori politici diversi) e il nullismo attuale (Presidente della Repubblica come capo solitario, senza una maggioranza stabile in Assemblea nazionale).

Secondo Prodi, che era stato appena travolto dalla carica dei 101, era indispensabile “un forte accentramento di potere nelle mani del vincitore delle elezioni, almeno come ora avviene nel caso dei sindaci o, ancora di più, nella persona del presidente della Repubblica, come in Francia”. Alle obiezioni circa i pericoli di una verticalizzazione del potere personale il leader ferito ribatteva senza remore: “Non solo questo non mi fa paura ma penso che sia l’unica via di salvezza per un Paese che, come l’Italia, ha bisogno di prendere, nel rispetto della volontà degli elettori, le decisioni necessarie per farla uscire dalla ormai troppo lunga paralisi”. Mentre Rosy Bindi si dichiarò “addolorata in modo particolare” per la fuga prodiana in un territorio ostile al paradigma parlamentare del cattolicesimo democratico (Dossetti, Elia, Ruffilli), il politologo Parisi rilanciò lo stampino semipresidenzialista come una condizione essenziale per il mantenimento del paradiso bipolare distrutto dagli elettori.

Lo stesso presidente del Consiglio dell’epoca, Letta, appoggiò i tentativi di svolta costituzionale (“assegnare l’elezione del presidente della Repubblica a mille persone non è più possibile”). Anche se si era espresso a favore del modello francese in maniera – secondo i prodiani – sin troppo felpata, Letta ammirava i muscoli del presidente eletto direttamente dal popolo. Nel dibattito di allora a segnare una certa distanza dal semipresidenzialismo di Prodi figuravano D’Alema, Zanda e Cuperlo. Proprio contro quest’ultimo, all’epoca candidato alle primarie in competizione con Renzi, si scagliò l’area prodiana squadrandolo come un vetusto garante degli equilibri del passato. Elly Schlein, che contro i franchi tiratori del Professore aveva occupato le sedi del Pd, disse che “la vera sfida è tra Renzi e Civati perché sanno parlare non soltanto alla platea degli iscritti ma a tutti gli elettori” e “Cuperlo è in totale continuità con il gruppo dirigente che ha portato questo partito al disastro”.

In risposta al tentativo bersaniano, ormai naufragato, di ricostruire la forma-partito, Prodi a fine anno si ripresentò inaspettatamente per votare alle primarie. Anche Veltroni, in nome della purezza renziana (per lui il sindaco toscano incarnava la migliore “espressione della sinistra moderna”), si infastidiva per “la sarabanda di adesioni” che, dopo il fresco sostegno al fiorentino da parte di Bassolino e Franceschini, risuonava per tutta Italia. E, in nome della “società che si è fatta veloce”, rigettava l’idea di un partito strutturato (“i partiti forti non esistono in nessuna parte del mondo”), maltrattava la forma di governo disegnata dai costituenti come capolavoro di “lentezza e farraginosità” e apriva al semipresidenzialismo per restituire ai cittadini “molti degli scettri confiscati dai partiti”. Veltroni scolpiva questa sua ricetta istituzionale in un libro uscito proprio in quei mesi del 2013, E se noi domani. L’Italia e la sinistra che vorrei. Se il Pd intende davvero contrastare i rischi di un presidenzialismo agognato dalla destra come occasione storica di rivincita e cesura della continuità repubblicana, dovrebbe fare i conti una volta per tutte con le suggestioni nuoviste.

I disturbi della memoria, che inducono Prodi a rivendicare un “totale” anti-presidenzialismo, non aiutano alla chiarezza. Non serve una strumentale polemica contro l’elezione diretta del capo dello Stato solo perché arma ideologica della destra radicale. È necessaria, piuttosto, una forte e costruttiva cultura della rappresentanza e del parlamentarismo per correggere scorciatoie che la stessa sinistra ha enfatizzato e impedire una catastrofica torsione delle istituzioni repubblicane. Il Pd dovrebbe ripensare se stesso, il proprio modello di organizzazione, in coerenza con la struttura mediata della democrazia italiana. La resistenza alle velleità della destra di travolgere il fondamento parlamentare della Repubblica, per essere realmente convincente, deve accompagnarsi ad una ricostruzione della cultura politica, ad una riprogettazione del soggetto politico.

Quello che Veltroni chiamava “il partito lieve” non poteva che evolvere verso una formazione civica, priva di radicamento, nervatura organizzativa, legame con i ceti operai e popolari. La difesa dell’architettura costituzionale, per essere efficace, deve marciare insieme alla ricostruzione del partito. Nel vuoto della soggettività politica organizzata, nell’evanescenza del sindacato, nel deserto del dibattito pubblico umiliato dalla deriva nichilistica e grottesca della telepolitica delle reti statali, la repubblica si ritrova pericolosamente senza un solido fondamento. Non si smaschera il volto illiberale della destra con questi partiti e con culture politiche che all’analisi preferiscono l’arte leggera della rimozione e del ritocco delle vicende personali.