Varata la finanziaria, il dibattito sulle riforme istituzionali sembra ripartito. La ministra Casellati, consapevole di quanto incandescente sia la materia, ha scelto l’approccio più corretto: fare una ricognizione delle posizioni di tutti i partiti per cercare di circoscrivere le soluzioni possibili. Possibili innanzitutto in termini di praticabilità parlamentare. Perché le riforme, come si sa, richiedono non solo una maggioranza in Parlamento, ma anche una maggioranza nel paese, qualora quella parlamentare non sia sufficientemente ampia da raggiungere i due terzi dei consensi e si debba andare al referendum.
Quindi, semplificando, gli scenari sono due: o si trova l’appoggio di una consistente parte dell’opposizione oppure si accetta di trasferire lo scontro nel referendum finale. Entrambe le ipotesi presentano dei rischi: una maggioranza dei due terzi implica, ovviamente che si debbano fare dei compromessi con l’opposizione. È prevista proprio per questo. E, astrattamente, non c’è nulla di male, anzi. Sarebbe bello avere riforme condivise. Ma c’è sempre il rischio che il compromesso produca soluzioni pasticciate o al ribasso, proprio perché conseguenza del do ut des tra i partiti che, oggi, mostrano di avere posizioni radicalmente opposte. Anche la strada della riforma a maggioranza presenta ovviamente dei rischi. Perché il referendum finale riflette inevitabilmente il conflitto parlamentare tra maggioranza che fa la “sua” riforma e opposizione che la osteggia. E il referendum finale diventa uno scontro elettorale nel quale il contenuto della proposta passa in secondo piano. È già successo nel passato: nel 2006 e nel 2016.
Di tutto ciò le forze politiche sono perfettamente consapevoli. Tanto più dopo quarant’anni di fallimenti, le cui ragioni sono sempre le stesse: tentativi di riforme condivise, tentativi di riforme a maggioranza: tutti falliti. Le forze politiche sono consapevoli, ma non possono ammetterlo. C’è in gioco la loro credibilità. La strada della rinuncia non è praticabile. E si ritorna alla casella di partenza. Cercando di dimenticare il passato e di convincersi che oggi è diverso. Chiunque abbia a cuore il destino del proprio paese non può che sperare che oggi sia diverso, ma il realismo ci impone di non eludere le insidie. La prima insidia riguarda il metodo da seguire: aprire all’opposizione, andare dritti per la strada di una riforma a maggioranza, convocare una commissione bicamerale, e chi più ne ha più ne metta. Tutte opzioni che sono già state percorse, più e più volte. Se queste sono le alternative rimane solo l’atto di fede: che oggi sia diverso.
A meno di non cercare altre strade, che ci sono, ma che sembra non si vogliano vedere.
La seconda insidia riguarda il merito: quale riforma? Le alternative di cui si discute sono note: semi-presidenzialismo alla francese,presidenzialismo all’americana, premierato. C’è solo un piccolo dettaglio. Queste alternative sembrano chiare, ma non lo sono affatto. Perché, mentre le prime due corrispondono a modelli noti e consolidati, il premierato è una formula che può contenere tutto e anche niente. Chi non voglia cedere alla convenienza dell’oblio, dovrebbe ricordare che all’inizio degli anni duemila ci fu un grande dibattito sul cosiddetto premierato. Vi partecipò il fior fiore degli studiosi, da Sartori a Barbera, da Pasquino a Fabbrini. Rileggendo oggi quel dibattito una cosa emerge con assoluta chiarezza: al premierato non corrispondeva alcun consenso su cosa esso significasse. Per alcuni era semplicemente il rafforzamento del Premier e l’introduzione di qualche meccanismo per arginare l’instabilità dei governi, per altri, all’estremo opposto, alludeva a un sistema nel quale il Primo ministro viene formalmente eletto dai cittadini e qualora si dimetta si ritorna a votare. È il modello simul stabunt, simul cadent che conosciamo nell’esperienza regionale e comunale di oggi. Basta considerare queste posizioni più estreme per capire che parliamo di qualcosa che il “nome” non definisce affatto, ma che dipende da quello che, dentro quel nome, ciascuno vuole infilare.
Per i primi ad esempio anche il cancellierato tedesco era una forma di premierato, per altri lo era invece il sistema inglese, per altri ancora quello israeliano (frettolosamente eliminato perché aveva prodotto più danni che altro). Per altri, infine, coincideva con il cosiddetto governo di legislatura. Se cade il governo nato dalle urne, si torna inesorabilmente alle elezioni. Non sorprende allora che, nelle ultime settimane, è proprio il premierato a essere diventato l’oscuro oggetto del desiderio. E si capisce anche perché. Nel monumentale dilemma che perseguita le forze politiche su come affrontare le riforme, il premierato presenta un indubbio vantaggio: il fascino discreto dell’ambiguità. Ha un effetto rassicurante in un contesto popolato dagli spettri. L’icona rassicurante del compromesso nobile. Un bene rifugio che non costa nulla. Perché nessuno deve rinnegare le proprie posizioni. Tutte possono starci dentro. Il premierato è un brand che vende, indipendentemente dalla qualità del prodotto. Alimenta quell’atto di fede che “oggi” sia diverso. Che esista l’uovo di colombo cercato negli ultimi quarant’anni.
Peccato, però, che nessuno sappia che tipo di animale uscirà nel momento in cui l’uovo si dischiudesse. È, anzi, probabile che, con il gioco dei veti incrociati, l’animale sia fragile e malaticcio. Ammesso che la gestazione si concluda. Prendere questa strada, allora, rappresenta forse l’insidia più grande. Può consentire alla politica di non perdere la faccia, ma non assicura affatto di far bene al paese. Anzi, detto chiaramente, in quell’etichetta si potrebbero tranquillamente infilare anche soluzioni che non servono affatto a migliorare le cose e magari finiscono per peggiorarle.
Diciamo la verità: scegliere il premierato darebbe solo una certezza: la pietra tombale sulle possibili alternative. La vera maledizione delle riforme, come insegna quella regionale del 2001, è che i danni prodotti si mostrano compiutamente in tempi distanti dal momento in cui sono state realizzate.
Mentre i dividendi politici che una classe dirigente incassa nel momento in cui le realizza possono essere molto remunerativi nell’immediato. Figurarsi il successo di una riforma dopo quarant’anni di tentativi. Poco importa se non cambia granché. È questa la tentazione diabolica. Parafrasando l’ormai abusata frase si potrebbe dire che ci sono riforme che possono esser fatte pensando alle prossime elezioni e ci sono riforme che possono esser fatte per le prossime generazioni. In molti, a cominciare dalla presidente del Consiglio nella conferenza stampa di fine anno, dichiarano di voler pensare a riforme per le prossime generazioni. C’è da augurarsi che sappiano cogliere le insidie imbastite da chi, in realtà, pensa solo alle prossime elezioni. Nel paese del Gattopardo non mi pare una preoccupazione del tutto infondata. Per questo, prima di abbandonare le alternative, sarebbe utile pensarci bene.
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