“Con la riforma costituzionale, il cosiddetto premierato, il Presidente della Repubblica tornerà ad esercitare i compiti originari che vollero dargli i padri costituenti. Ci sarà un governo più forte, con un mandato popolare pieno e il Capo dello Stato non dovrà più ampliare i suoi poteri come invece ha dovuto fare in questi anni”. Così tra un addobbo natalizio e i magnifici affreschi della Sala Zuccari, tra un gentile rinfresco e gli auguri alla Stampa parlamentare in un clima cordiale perché “tengo molto alla vostra professione”, Ignazio La Russa si è confessato.

E ha confessato. Tradendo il verbo supremo, cioè del Capo, cioè di Giorgia Meloni. Se la premier si è sforzata in queste settimane a dire e ribadire che “il premierato non toccherà in alcun modo i poteri del Presidente della Repubblica”, la seconda carica dello Stato ieri ha servito la verità su un piatto d’argento. “Esiste una Costituzione materiale – ha confessato – che amplia di fatto i poteri del capo dello Stato. Io credo che l’elezione diretta del capo del governo potrebbe ridimensionare l’utilizzo costante di questi ulteriori poteri” con un effetto che sarebbe “un atto di salute della nostra Costituzione” perché “lascerebbe al capo dello Stato quei compiti che vollero dargli i padri costituenti, che il Presidente ha dovuto allargare nel tempo per supplire a carenze della politica, tra cui la durata troppo breve dei governi”.

Per essere ancora più chiaro, ha aggiunto: “Un governo che dura 5 anni forse non rende più necessario che il Capo dello Stato utilizzi poteri non espressamente previsti dalla Costituzione”. Del resto, con il premierato, “questo governo ha scelto la via meno invasiva, meno di questo c’è solo lo status quo: niente elezione diretta del premier”. Lecito che qualcuno non sia d’accordo ma “significa che preferisce che tutto rimanga com’è”. Onore a La Russa che ha compiuto l’operazione verità. Il problema adesso è anche dentro la maggioranza perché i dubbi che una riserva della Repubblica come Gianni Letta, e quindi Forza Italia, aveva messo sul tavolo, non hanno più alibi né infingimenti. Il “re” – il modello di democrazia parlamentare che questa destra ha in testa – è all’improvviso nudo. Il Parlamento, ad esempio. Più volte in queste settimane nel dibattito d’aula, alla Camera e al Senato le opposizioni hanno avvertito: “Il premierato, e quindi i maggiori poteri al premier, è già nei fatti visto come l’esecutivo sta svuotando progressivamente il Parlamento”.

Già, c’era una volta il Parlamento e il bicameralismo perfetto. Oggi lavora, nei fatti, un solo ramo del Parlamento, preferibilmente il Senato, dove si assiste ad un ingorgo che non è casuale. La legge di Bilancio è stata incardinata a palazzo Madama e la Camera potrà fare solo un frettoloso visto si stampi per evitare l’umiliazione dell’esercizio provvisorio (non approvare la legge di bilancio entro il 31 dicembre). Sempre al Senato, però, tra la Commissione Affari costituzionali (presidente il meloniano doc Alessandro Balboni) e la Commissione Giustizia (presidente Giulia Bongiorno, Lega) ballano tre riforme che intendono riscrivere le regole della democrazia: riforma costituzionale, il premierato: l’autonomia regionale differenziata (legge Calderoli) che sarà in aula il 16 gennaio; riforma della giustizia (ma non ancora la separazione delle carriere). Un vero ingorgo che non è figlio del caso ma della diffidenza all’interno della stessa maggioranza: è tutto a palazzo Madama perché così palazzo Chigi può gestire tempi e modi senza soprese né colpi bassi.

Lucio Malan, capogruppo dei Fratelli al Senato, ironizza: “In effetti alla Camera mi pare ci sia giusto il codice della strada” che sarebbe una riforma a cui tiene molto Salvini. E chissà che non sia stata la polemica feroce e sotterranea contro il predominio del Senato a convincere il presidente Lorenzo Fontana (Lega) a rinviare il tradizionale scambio di auguri con i giornalisti. Intanto maggioranza e opposizione hanno alla fine trovato l’accordo sui tempi della manovra: domani alle 17 la legge sarà in aula al Senato, volto di fiducia previsto il 22. Sui contenuti è il Vietnam. Le opposizioni, dai Verdi a Italia viva, si sono messe d’accordo per finalizzare le poche risorse (20 milioni) sulle misure in favore della sicurezza delle donne. Resta da capire cosa succederà mercoledì quando la Ragioneria dovrà dare la bollinatura al testo. “Potrebbero esserci sorprese sui soldi per il ponte sullo Stretto ad esempio” avverte la senatrice Lorenzin (Pd). La Camera attende il testo il 27 dicembre. La Commissione avrà giusto il tempo di leggerla. Ma non potrà toccare una virgola. I senatori sono pregati di non partire per le vacanze.

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Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.