Ciao Internet!
La decisione
Meta e Zuckerberg cambiano direzione: addio al fact-checking, dentro John Elkann e Dana White. Quel rischio di anarchia digitale
La notizia ha fatto rapidamente il giro del mondo: John Elkann e Dana White entrano a far parte del Consiglio di amministrazione di Meta, mentre la stessa società sceglie di eliminare i fact-checker “ufficiali” e abbraccia una visione più ampia della libertà di parola. Una svolta che – se a prima vista potrebbe sembrare soltanto una scelta di opportunità – rivela in realtà una trasformazione molto più profonda, destinata a cambiare non solo il destino del colosso di Zuckerberg ma anche il rapporto tra social network, politica e opinione pubblica.
Meta, la sorpresa di Elkann e White
Le nomine di Elkann e White sorprendono perché, contrariamente a quanto ci si aspetterebbe da un’azienda nata nel cuore della Silicon Valley, non si tratta di esperti di tecnologia. Sono invece figure in grado di tessere relazioni strategiche nelle due aree cruciali per Meta, ossia gli Stati Uniti e l’Europa. Da una parte White è vicino agli ambienti repubblicani e ha rapporti consolidati con Donald Trump; dall’altra Elkann rappresenta un ponte verso i palazzi che contano in Europa sia per la sua influenza nel mondo industriale sia per la sua posizione in campo mediatico.
Il drastico ridimensionamento dei fact-checker
Oltre al rimpasto, un altro tema caldo è il drastico ridimensionamento dei fact-checker. Meta sembra intenzionata a sostituire l’apparato di verifica esterno con un sistema di segnalazioni e di valutazioni interno alla community. Un approccio che richiama la cosiddetta “saggezza della folla”: se in passato l’azienda californiana si era affidata a una rete di organizzazioni accreditate (e a volte criticate) per bollare come false o fuorvianti determinate informazioni, ora ha scelto di rimandare le decisioni sulla veridicità dei contenuti agli utenti stessi. Gli effetti di questa mossa potrebbero rivelarsi dirompenti: da un lato si punta a una maggiore pluralità di voci, dall’altro si rischia di spalancare le porte alla disinformazione e alle “echo chambers”.
La fine del “purpose marketing”
E la presa di posizione più importante da ricavare è la fine del cosiddetto “purpose marketing”, il marketing legato agli scopi e/o alle cause. Più in generale, la morte dell’adesione incondizionata alle “identity politics”: fino a ieri gran parte delle aziende si sentiva obbligata a sventolare bandiere etiche, sociali o ambientali per dimostrare il proprio impegno civile (inclusione, sostenibilità, difesa dei diritti di varie minoranze). Questa tendenza ha sostenuto per anni campagne pubblicitarie e strategie di brand, soprattutto in ambito anglosassone. Ora il clima sembra mutare: nel Consiglio di amministrazione di Meta non si cercano più figure legate all’attivismo “woke”, bensì manager e personalità in grado di aprire canali diplomatici o economici. E anche le campagne di comunicazione delle grandi aziende potrebbero presto assomigliare meno a manifesti ideologici e più a proposte di prodotto e servizio.
L’ulteriore sfida della normativa europea
Non si tratta di un fenomeno isolato: da mesi il mercato sta diventando più cauto, preferendo soluzioni che evitino di scontentare segmenti ormai polarizzati dell’opinione pubblica. Alcuni colossi si ritirano dal campo politico, altri – come nel caso di Meta – rilanciano, ma adottando strategie più attente alle relazioni istituzionali e meno sbilanciate su posizioni preconfezionate. In questo quadro, la normativa europea (basti pensare al Digital Services Act e all’AI Act) rappresenta un’ulteriore sfida: le autorità di Bruxelles mirano a restringere il campo d’azione delle piattaforme in materia di tutela dei dati personali e di moderazione dei contenuti, mentre negli Stati Uniti si teme che un controllo troppo stringente possa comprimere la libertà d’espressione garantita dal Primo emendamento.
Meta, il risvolto dell’abbandono del fact-checking
L’abbandono del fact-checking “istituzionalizzato” sembra “livellare” il terreno di gioco. Un terreno dove gli sponsor di questa nuova iniziativa parlano del ritorno alla libera circolazione di idee, mentre i detrattori di un far west comunicativo. Che abbiano ragione i primi o i secondi è ancora tutto da decidere; certo è che nel nuovo contesto a contare sempre di più è la capacità di far rumore o di raccogliere consensi istantanei, consensi che si trasformano in validazione delle opinioni. O in silenzi assordanti: Elisabeth Noelle-Neumann definiva “spirale del silenzio” quel meccanismo per cui le opinioni minoritarie restano in sordina per il timore dei singoli di esporsi al biasimo della maggioranza. Che, in un contesto governato dalla cosiddetta “saggezza della folla”, potrebbe farsi ancor più pronunciato.
Il rischio dell’anarchia digitale
Resta da capire se Zuckerberg e i suoi nuovi alleati riusciranno a gestire una comunità sconfinata come quella di Meta senza scadere in un anarchismo digitale: quel che è certo, almeno per ora, è che si tratta di un cambio di rotta coerente con un mercato globale che si sta de-ideologizzando, puntando al profitto e all’immagine oltre che alla propria sopravvivenza rispetto ai sempre più severi controlli dei governi. Meno identity politics e più realpolitik, dunque, con l’utente messo di fronte al compito – non banale – di discernere la qualità dell’informazione senza il conforto di un “filtro” ufficiale. Se funzionerà o meno, lo vedremo nei prossimi mesi. Ma nel frattempo la rivoluzione di Meta ci ricorda che anche il mondo dei social – spesso accusato di inseguire trend e mode – è capace di virate repentine alla luce di nuovi equilibri di potere.
© Riproduzione riservata