La leva dei bilanci nazionali
No alla demagogia, sì a Readiness 2030 e a Mario Draghi: come fare i conti (pubblici) con la Difesa
La rinnovata esigenza di investire in tecnologie per la sicurezza impone la ricerca di soluzioni. Altri passivi aumenterebbero gli interessi sul debito: l’Europa indichi una strada percorribile

Sul piano di riarmo che la Commissione europea sta per varare si può essere ideologicamente a favore o contro. Di certo servirebbe una analisi più approfondita che risponda alla seguente domanda: come possiamo far quadrare i conti con l’esigenza di fornire all’Italia le tecnologie militari di cui ha bisogno? Il centro della questione è tutto lì ma, come spesso accade, i problemi vengono discussi puramente per amore d’ideologica, lasciando da parte la possibilità di realizzare i progetti.
Il piano varato da Ursula von der Leyen, “Readiness 2030” (l’ex “ReArm Europe”), è stato approvato nei giorni scorsi dal Parlamento europeo. Prevede uno stanziamento complessivo di 800 miliardi attingendo a diverse fonti. Circa 150 miliardi dovrebbero essere forniti dalla Commissione attraverso l’emissione di debito comune, una riedizione degli Eurobond. Un’altra quota sarebbe a capo della Banca europea per gli investimenti in modo da sostenere i progetti che coinvolgono più Stati. Poi si dovrebbe procedere allo “stimolo” del risparmio privato con il varo di conti deposito dedicati agli europei. Infine, la gran parte del riarmo sarebbe in capo alla fiscalità di ogni singolo Paese.
Come già accaduto in passato, la Commissione europea lancia il cuore oltre l’ostacolo prima che le coperture necessarie siano messe in chiaro. Il paragone più simile è con il “Green Deal”, che avrebbe dovuto stimolare lo sviluppo dell’economia “verde” nel Vecchio Continente, con investimenti per oltre 650 miliardi, ma che vedeva l’Unione Europea impegnarsi per poco più di 70 miliardi, mentre il resto delle azioni doveva essere varato facendo leva sui bilanci nazionali.
Il problema sta proprio in quest’ultima parte: la leva dei bilanci nazionali. Come tutti sanno – ma nessuno ricorda, nello stucchevole dibattito di queste settimane – il debito pubblico italiano è a livello di complessa sostenibilità. In che modo possiamo trovare le necessarie coperture per investire nelle tecnologie di sicurezza e Difesa?
Bando alla demagogia. Ad oggi, l’Italia investe nella difesa circa 35 miliardi: l’1,54% del Pil. Entro il 2028, il governo Meloni si è impegnato ad arrivare al 2% del Pil: cioè un incremento di circa 11,5 miliardi. Con il nuovo piano, il 2% dovrebbe essere ampiamento superato, perché gli investimenti nel settore della Difesa non sarebbero computati nel Patto di Stabilità europeo. Dove prendere le risorse necessarie? La prima strada è aumentare gli investimenti, limando altri capitoli di spesa. E qui vediamo i demagoghi stracciarsi le vesti: «Si ridurrebbero soldi per sanità, infrastrutture, pensioni, assistenza sociale e sicurezza».
Certo, il prezzo da pagare per vivere in un mondo più sicuro, e ancora libero, c’è. Starà alla politica dirlo con chiarezza. C’è poi un seconda strada: accrescere il debito pubblico per non inimicarsi il voto popolare. Una scelta populista. Ai mercati poco importa se gli investimenti vengono computati o meno nel patto di stabilità: si tratterebbe di aumentare il debito. È chiaro a tutti che salirebbero gli interessi da pagare, già pari a 113 miliardi in un anno. La soluzione non può essere neanche quella degli Eurobond. In un mercato debitorio saturo anche delle emissioni di titoli tedeschi (circa 500 miliardi di euro aggiuntivi), i Btp italiani potrebbero risultare poco attrattivi. Cosa fare allora? Se ci fosse una Banca centrale tradizionale si dovrebbe procedere ad emettere moneta. Sappiamo bene che questo non accadrà. Sono tempi complicati, urgono soluzioni straordinarie: servirebbe un Mario Draghi, altroché demagoghi.
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