Quando le cifre non bastano più ad impressionare, perché trasformate in una litania quotidiana che ci ha anestetizzato i sensi. Quando le immagini delle fosse comuni non ci scandalizzano, perché da ricordo della peste manzoniana sono diventate necessità del presente. Quando il dolore, l’impotenza e lo sconcerto di miliardi di  persone va di pari passo con una linea tracciata tra un’ascissa e un’ordinata, a quel punto serve tornare a una dimensione umana.

Il New York Times lo fa dedicando la sua prima pagina alle vittime americane del coronavirus, proprio mentre il bilancio statunitense si prepara a scivolare pericolosamente verso le 100mila vittime “una perdita incalcolabile“.

Mille nomi, appena l’1% del totale, seguiti da una breve biografia che riesca, anche solo per un momento, ad aprire uno squarcio sulle loro vite.

Non erano solo nomi, eravamo noi“, scrive il giornale prima di lasciare posto al racconto di quelle persone.

C’è Joe Diffie, 62 anni, Nashville, star della musica country vincitrice del Grammy, Lila A. Fenwick, 87 anni, New York City, prima donna nera che si è laureata alla Harvard Law School, Myles Coker, 69, New York City, liberato dalla vita in prigione. E poi Ruth Skapinok, 85, Roseville, California, gli uccelli del cortile amavano mangiare dalla sua mano e Jordan Driver Haynes, 27, Cedro Rapids, Iowa, generoso giovane con un sorriso delizioso. “Volevo qualcosa che la gente possa guardare tra 100 anni per capire la portata di ciò che stiamo vivendo”, ha spiegato il national editor Marc Lacey.