Chissà a quanti pubblici ministeri saranno fischiate le orecchie, ieri pomeriggio, mentre la Camera dei deputati discuteva, votava e decideva di far propria, con un ritardo di cinque anni, la Direttiva europea del 2016 sulla presunzione di innocenza. Quella che diffida la magistratura dal presentare l’indagato o l’imputato come colpevole. E che ha trovato un tale consenso nell’aula di Montecitorio da far sperare in un improvviso capovolgimento di cultura in chiave garantistica nella nostra classe politica. Ovviamente non è così, ed è merito non solo dei deputati Enrico Costa e Riccardo Magi che con caparbietà hanno tenuto ferma la barra sul proprio emendamento, ma anche della ministra Cartabia che ha saputo governare con fermezza i dissensi, smussando e correggendo, ma senza mai derogare al principio di fondo.

Si potrebbe pensare che dovrebbe essere sufficiente l’articolo 27 della nostra Costituzione, per stabilire il fatto che nessuno debba essere considerato colpevole se non dopo una sentenza passata in giudicato. Non è così purtroppo. Prima di tutto perché quello strumento nato come tutela dell’indagato che si chiama “informazione di garanzia” (e non “avviso” come in genere si dice, quasi fosse una minaccia) è ormai diventata una sorta di condanna, e anche, nella cultura inquisitoria, una colpa. Come non ricordare le manifestazioni del partito dei forcaioli, quel Movimento cinque stelle che oggi è al governo ed è obbligato a “recepire” anche questo boccone indigesto, quando inveivano contro “il Parlamento degli inquisiti”? Naturalmente il termine era ai loro occhi poco meno di una bestemmia, fino a quando non è toccato anche a loro. Solo allora sono iniziati i distinguo. E oggi sono persino costretti a discutere di presunzione di innocenza. Una faticaccia. Già hanno il problema del secondo mandato…

Ma il punto focale della Direttiva europea è diretto, prima ancora che all’opinione pubblica o alle forze politiche, proprio alla magistratura, proprio a comportamenti pubblici che paiono portare le impronte digitali dei tanti procuratori abituati, dopo l’ennesimo blitz, a gonfiare il petto davanti alle telecamere. Ecco il punto: «La presunzione di innocenza sarebbe violata se dichiarazioni pubbliche rilasciate da autorità pubbliche o decisioni giudiziarie diverse da quelle sulla colpevolezza presentassero l’indagato o l’imputato come colpevole fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente provata. Tali dichiarazioni o decisioni giudiziarie non dovrebbero rispecchiare l’idea che una persona sia colpevole». Un po’ ripetitivo, ma chiarissimo.

Possiamo dimenticare quel giorno di dicembre del 2019, quando il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri illustrava l’inchiesta “Rinascita Scott” come la più grande indagine della storia contro la mafia, equiparabile solo al maxiprocesso di Falcone contro Cosa Nostra? E quando insisteva sulla famosa “zona grigia” rappresentata da indagati delle istituzioni, già presentati come colpevoli in quanto cerniera con i boss della ‘ndrangheta? Ma non è tutto. Qualche tempo dopo quel giorno, lo stesso procuratore lamentava sui propri profili social il fatto che i principali quotidiani nazionali avessero dato scarso risalto alla sua maxi-operazione. Sentite che cosa scriveva: «’Ndrangheta, la maxi-operazione scompare dalle prime pagine dei grandi giornali: niente su Stampa e Repubblica, un box sul Corriere». E poi ha elogiato il Fatto quotidiano. Quello dove la presunzione di innocenza è un oggetto sconosciuto. E di recente l’inchiesta “Rinascita Scott” è stata celebrata in una trasmissione televisiva sul servizio pubblico della Rai, con la partecipazione, in diversi spezzoni di intervista, dello stesso dottor Gratteri.

Ma sarebbe ingiusto circoscrivere al solo procuratore di Catanzaro la violazione di principi che dovrebbero essere cuciti addosso a qualunque cittadino, e prima di tutto alla toga che ogni magistrato indossa. Fin dai tempi di tangentopoli, un gruppo di pubblici ministeri che aveva osato definire le proprie mani come “pulite”, quasi come se il resto del mondo avesse infilato le proprie nella melma, non si è mai sottratto alle telecamere. Anche per minacciare la propria astensione dal lavoro (un po’ come i vertici del sindacato delle toghe nei giorni scorsi) se un certo decreto fosse stato convertito in legge. E il Parlamento aveva obbedito. E mai abbiamo sentito sulla bocca di alcuno di loro la pronuncia del termine “presunto”. Avevano un grande potere, allora. Oggi…

La Direttiva europea è molto chiara sul concetto di gogna mediatica e sul problema dell’oblio. Quando sei indagato, e poi tenuto sulla graticola per anni, quando i tuoi vicini di casa guardano male la tua famiglia, e i tuoi figli subiscono sberleffi a scuola, chi ti toglierà di dosso quel marchio infame, anche dopo che ( ma quanto tempo dopo?) sarai stato assolto? E le intercettazioni, spesso mal capite o distorte, come ha ricordato Enrico Costa, depositate in edicola prima ancora che in cancelleria? Il problema è che nel frattempo è stato celebrato un vero processo mediatico, che ti si appiccica addosso e di cui non ti liberi più. Ecco che subentra il diritto all’oblio, cosa oggi, con la diffusione dei social, estremamente difficile. Quante volte ci capita di leggere che qualcuno era stato coinvolto in un’inchiesta di mafia, anche se poi il suo caso era stato archiviato? Che cosa resta nella memoria del lettore? Resta il coinvolgimento, e il sospetto che, se i magistrati si sono occupati di lui, se addirittura quel tale era stato arrestato, qualcosa avrà fatto. E che, se poi è stato prosciolto o assolto, magari il suo avvocato avrà trovato un “cavillo” o magari una “stradina” con il giudice.

Faceva impressione, ieri pomeriggio, sentire i rappresentanti dei diversi partiti di maggioranza, tutti virtuosi, tutti garantisti, tutti grandi estimatori dell’articolo 27 della Costituzione. Un cenno di perplessità è venuto da un breve intervento di Roberto Giachetti, radicale al di sopra di ogni sospetto, dopo una serie di interventi dei deputati dell’unico partito d’opposizione, Fratelli d’Italia. E in effetti, senza andare troppo indietro con la memoria, vien da dire soltanto “benvenuti nel club”, sperando che la presenza duri. Così come da tempo abbiamo dato il benvenuto a Matteo Renzi (senza sospetti sulla brava Lucia Annibali, intervenuta in aula) e agli altri parlamentari di Italia Viva. Ma anche senza dimenticare la loro provenienza politica, la stessa di coloro che oggi militano nel Pd. Di cui non si possono dimenticare le autorizzazioni all’arresto votate anche nei confronti dei propri colleghi e compagni, senza tenere in nessun conto la presunzione di innocenza. Intanto ti sbatto in galera, era la logica, poi ti espello dal partito, infine, se proprio sarai assolto, ne riparleremo.

Lasciando perdere la squadra dei grillini quindi, su cui ci sono poche speranze, e lasciamo da parte Forza Italia che ha sempre mantenuto coerenza ai principi garantistici, e singoli come Enrico Costa e Riccardo Magi piuttosto che Roberto Giachetti o Alessandro Colucci (sempre di provenienza Forza Italia), possiamo sperare che il voto di ieri abbia segnato una svolta culturale nel Parlamento? Per esempio il fatto che chi chiede la “certezza della pena” la intenda alla maniera di Marta Cartabia, e cioè che certezza della pena non vuol dire certezza del carcere? Se è così, la svolta c’è. Se no, vuol dire che ce ne sono ancora troppi che devono mangiare ancora un po’ di minestra prima di dimostrare di credere davvero nella presunzione di innocenza.

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Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.