Da tre giorni il sottosegretario alla giustizia Andrea Delmastro non può entrare né nelle commissioni giustizia di Camera e Senato né nell’aula dei due rami del Parlamento. Glielo impedisce il muro umano e politico delle opposizioni. La verità è che gli uni non hanno ancora ben assimilato la cultura di governo. E gli altri confondono l’opposizione con la guerriglia urbana.

Quelli del Pd perché, essendosi ormai abituati da tempo a governare pur avendo perso le elezioni, pensano che l’opposizione debba essere più muscolare che cerebrale. E quelli dei Cinque Stelle vedono la realtà solo con la lente giudiziaria. E i capigruppo di Camera e Senato di FdI Foti e Malan fanno a loro volta muro nella difesa del loro collega. Così il caso del sottosegretario alla giustizia Andrea Delmastro diventa un pasticcio senza capo né coda, perché è un po’ politico e un po’ giudiziario e un po’ da assalto reciproco alla diligenza. Il punto di partenza è una inopportuna spifferazione di notizie riservate ma non secretate tra il membro di governo e un collega di partito, il deputato Giovanni Donzelli, che ne fa un uso propagandistico e aggressivo nell’aula di Montecitorio.

Contro il Pd, con un capovolgimento di ruoli, come se il partito di Enrico Letta fosse al governo e a Fratelli d’Italia spettasse il compito di sparare a vista dall’opposizione. Così si finisce poi, come sempre ormai in Italia, in tribunale. Ci pensa uno che dovrebbe appartenere a un’area politica in cui le garanzie dovrebbero essere sacre, e invece pare trovarsi più a proprio agio in procura che all’aria aperta. È infatti il verde Angelo Bonelli a caricarsi dell’onere e dell’ onore di denunciare Andrea Delmastro e anche a ottenere che questi venga immediatamente iscritto nel registro degli indagati per violazione e divulgazione del segreto d’ufficio. E intanto il Pd, offeso dalla domanda di Donzelli “dovete dirci se state con lo Stato o con la mafia”, ha subito attivato l’istituzione di un giurì d’onore, un organismo di giurisdizione interna che si è riunito ieri e che dovrà fare giustizia della domanda infamante.

Non si tratta ovviamente di mettere in discussione le legittime, e obbligate in un certo senso, visite dei parlamentari e consiglieri regionali alle carceri, per verificare le condizioni di detenzione delle persone recluse. E neanche di escludere, nel momento in cui si incontrano condannati anche per reati gravi, la necessità di dare loro la stessa attenzione riservata a tutti gli altri. I parlamentari del Pd, tre deputati (la capogruppo Debora Serracchiani, l’ex ministro Andrea Orlando, Silvio Lai) e il senatore Walter Verini, responsabile giustizia del partito, rivendicano questo ruolo. E non accettano l’insinuazione di avere in qualche modo, nella visita all’anarchico Cospito nel carcere di Sassari, incoraggiato il suo digiuno come momento di battaglia politica e in un certo senso anche “trattato” il tema dell’abolizione dell’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario con un paio di detenuti per reati di mafia.

Se questo pensa dei parlamentari del Pd il deputato Donzelli, ha proprio sbagliato la mira e l’obiettivo. Sul 41 bis la destra di Fratelli d’Italia e la sinistra di Verini e Serracchiani la pensano proprio allo stesso modo. Dovrebbero darsi pacche sulle spalle, invece di denunciarsi a vicenda. Perché, se il punto di partenza si è verificato nell’aula del Parlamento, quello di arrivo, fino a ora, si è allargato fino ai piani superiori sia di Montecitorio che di Palazzo Madama, dove ci sono le aule delle commissioni, i luoghi veri dove si costruiscono le leggi. Ed è stato lì che si è sviluppata la guerriglia urbana con una presa di posizione dell’intera opposizione contro la persona Andrea Delmastro.

Sì, la persona, perché fare un muro umano, pur se virtuale, per impedire al sottosegretario di entrare nell’aula della commissione giustizia, minacciando l’uscita di massa dalla medesima al solo apparire sulla soglia del reprobo, è un attacco personale, non più politico. Legittima e politica è la richiesta di dimissioni. Anche l’Aventino ha la sua dignità, come forma di protesta rispetto a qualche provvedimento di legge o anche al metodo di lavoro del governo e della maggioranza. Esempio tipico è l’abbandonare l’aula per protesta contro l’eccessivo ricorso da parte di un governo al voto di fiducia. O alla decretazione d’urgenza. Ma l’assalto a una singola persona ha in sé qualcosa di violento, di poco democratico.

Proprio come l’atto di sfiducia individuale, inaugurato proprio dal Pd nel 1995 nei confronti del ministro guardasigilli Filippo Mancuso che aveva inviato gli ispettori agli uomini del pool Mani Pulite di Milano. Al momento del voto quella volta i senatori del Polo delle libertà abbandonarono l’aula in segno di protesta. Ben altra dignità, e tra loro c’erano anche quelli di Alleanza Nazionale, veri garantisti. Ora non c’è più questa chiarezza di ruoli. Il Parlamento sembra un ring di pugili suonati che delegano ancora una volta la decisione alle toghe.

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Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.