Uno spettro si aggira per l’Europa: una maggioranza a destra del centro nel Parlamento che risulterà dalle elezioni del prossimo anno. Lo spettro però, almeno in questi termini, è destinato a restare tale e a non materializzarsi, anzitutto per ragioni numeriche, che sarebbero di per sé già sufficienti, e poi anche politiche. Per maggioranza si intende quella che a inizio legislatura garantisce l’elezione a scrutinio segreto del Presidente della Commissione, ossia almeno 353 voti, la maggioranza assoluta dei componenti rispetto al plenum di 705. Cosa che, a causa della presenza fisiologica di qualche decina di franchi tiratori, impone di partire, per stare sicuri, da un consenso sulla carta di poco meno di 400 eurodeputati. Ad esempio all’attuale Presidente mancarono alcune decine di voti di democratici e socialisti del Nord Europa, a cominciare da vari eurodeputati della Spd tedesca.

Ora, alcuni meritori siti, a partire da Europe Elects, sulla base dei sondaggi sulle intenzioni di voto, aggiornano periodicamente la possibile composizione dell’Europarlamento. Dai 27 risultati nazionali si registra, rispetto al 2019, una maggiore frammentazione e un relativo (molto relativo) spostamento a destra, più ai danni del primo gruppo, il Ppe di centrodestra, che scenderebbe di una ventina di seggi pur restando in testa, che non del secondo e del terzo, democratici-socialisti e liberali, che ne perderebbero una decina ciascuno, conservando però anch’essi le rispettive posizioni. Il gruppo Ecr di Meloni resterebbe quarto, pur guadagnando una ventina di seggi.

Diverse le motivazioni di chi evoca lo spettro. Una prima può essere semplicemente l’ignoranza o, nel caso migliore, una volontà di mobilitare il proprio elettorato descrivendosi come vincenti da soli. Concentriamoci anzitutto su questa. Se non è ignoranza, si tratta comunque di propaganda infondata che ignora o nasconde tre elementi fondamentali: ci si dimenticano i risultati del 2019 (ad esempio i demo-socialisti andarono male allora, quindi non possono ora perdere più di tanto); le elezioni europee sono la somma di 27 risultati nazionali che in larga parte si equilibrano tra loro perché le motivazioni di voto sono prevalentemente nazionali, relative alla volontà di premiare o punire i governi in carica, che sono di colore diverso; per di più si vota con sistemi proporzionali che fotografano i limitati spostamenti di voti in seggi, che non li amplificano. Più precisamente la partita si gioca nei Paesi più popolati, che hanno il maggior numero di seggi.

In 6 Stati su 27 si elegge poco più della metà degli eurodeputati: Germania 96, Francia 79, Italia 76, Spagna 59, Polonia 52, per un totale di 362 su 705. In Germania rispetto al 2019 salirà molto Afd (in gruppo con la Lega) e scenderanno i Verdi, che allora fecero un exploit, si avranno movimenti minimi tra gli altri; in Francia ci fu una grande frammentazione nel 2019 che sarà tendenzialmente confermata; in Italia il movimento maggiore sarà interno al destra-centro, con Fdi che toglierà voti e seggi alla Lega; in Spagna Pp e Vox (alleata di Meloni) prenderanno le spoglie dei liberali di Ciudadanos, oggi defunti. Più interessante dal punto di vista politico, non numerico, il dato della Polonia perché lì si sta nel frattempo svolgendo la campagna per le politiche di ottobre, dove lo scontro frontale, all’ultimo sangue, con toni da campagna italiana del 1948 tra i popolari di Tusk e il Pis, alleato di Meloni, che guida il governo illiberale. Difficile pensare che qualche mese dopo possano immediatamente convergere in una medesima maggioranza, per quanto nel 2019 il Pis abbia votato Ursula e se si ritrovasse di nuovo al governo forse potrebbe riprovare a entrare. Non tutto può essere descritto in modo deterministico.

Ma cosa c’è oltre ignoranza e propaganda infondata? Qui si arriva ad una seconda serie di motivazioni, di importanza politica maggiore. Se l’attuale quadro politico, che lo si voglia o meno, non è rivoluzionabile, non è neanche riproducibile così com’è perché la maggiore frammentazione porta ad allargare la maggioranza. Si tratta di una dinamica simile a quella che 5 anni fa portò il Movimento 5 Stelle a entrare nella maggioranza Ursula, pur provenendo da un gruppo euroscettico coi sostenitori della Brexit. In questo caso il possibile allargamento riguarda Fdi di Meloni, a prescindere dal suo attuale gruppo europeo. Questo scenario è al momento dissimulato da Meloni, anche se lo si è visto anticipato nel dibattito sull’immigrazione al recente Consiglio europeo ed è invece in qualche modo evocato da Salvini, che propone agli altri partner del destra-centro italiano un patto sulla comune collocazione in Europa. Patto di cui ben conosce la sorte, ossia il fatto che non sarà accolto perché Fi, al netto delle sue difficili sorti post-Berlusconi, starà comunque in maggioranza e questo accadrà probabilmente anche a Fdi.

Tuttavia, così facendo, si potrebbe garantire un ruolo da spina nel fianco di Meloni, sempre che non preferisca alla fine rinunciare a dividere la maggioranza. Meloni invece ci ha già insegnato in modo chiaro nel passaggio dalla campagna elettorale politica al governo il suo probabilissimo orientamento: proseguire una certa campagna di propaganda sovranista prima del voto, per poi pragmaticamente entrare in maggioranza subito dopo con un’impostazione realista. Sempre che Forza Italia continui a reggere fino al voto e che gli elettori europei non decidano invece di correggere i sondaggi con una maggiore continuità complessiva rispetto al 2019. Cosa a cui dovrebbero dedicarsi con maggiore efficacia le forze alternative alla destra, rivendicando più e meglio le scelte innovative di questa legislatura.