Starà anche nel perimetro della legge il provvedimento con cui la magistratura palermitana ha arrestato Alfonso Tumbarello, il medico in pensione che avrebbe fornito cure e ricette intestate al prestanome di Matteo Messina Denaro e di cui quest’ultimo avrebbe in realtà usufruito. Ma il fatto che quel provvedimento sia in ipotesi legittimo, se possibile, aggrava la notizia. Che è questa: un medico settantenne può essere indagato, e sbattuto in galera prima del processo, perché ha assicurato terapie a un mafioso malato di cancro anziché denunciarlo e rifiutarsi di curarlo.

Gli si addebita di aver “personalmente visitato il paziente Matteo Messina Denaro”, col supplemento doloso di avergli indicato ”un percorso terapeutico” e di averlo seguito “con estrema attenzione”, con la prescrizione “di farmaci e analisi mediche per patologie molto gravi”. D’accordo, in realtà fingeva di curare qualcun altro – il prestanome, appunto, e qui interviene il falso di cui lo si accusa – ma per essere un buon medico e cioè, par di capire, un medico antimafia, che cosa avrebbe dovuto fare? Visitarlo non “personalmente” ma via Skype, sotto la supervisione dei carabinieri? E il percorso terapeutico? Non doveva “indicarglielo”? Doveva dirgli di farselo indicare dalla Procura della Repubblica? È l’”estrema attenzione” con cui ha seguito il paziente? Doveva seguirlo, diciamo così, distrattamente, senza impegnarsi troppo? E i farmaci e le analisi? Doveva limitarsi al placebo?

Lasciamo ai tecnici qualsiasi valutazione sul fatto che la magistratura potesse legittimamente, o no, assumere i provvedimenti che ha assunto nei confronti di questo signore. Se non poteva, e cioè se il provvedimento restrittivo è illegittimo, molto male. Se invece poteva, e cioè se davvero si può arrestare un medico perché si rende responsabile di quei comportamenti, molto peggio. Molto peggio perché significa che siamo alla follia della legge, e che un simile arbitrio può essere perpetrato ineccepibilmente in nome del popolo italiano. Quel medico (è il solito “concorso esterno” a fare il lavoro sporco in questa inenarrabile giurisprudenza) avrebbe favorito la criminalità organizzata curando un malato anziché comportarsi come si deve: l’antimafia del medico-secondino, che non cura ma denuncia; non interferire nel corso democratico del tumore, lasciando che abbia tranquillo sfogo la collaborazione di giustizia delle metastasi.

Tutto un paese, quel borgo siciliano, è rappresentato come una specie di covo diffuso da perlustrare per rastrellarne ogni indizio di complicità, e c’è da trasecolare leggendo quel che giungono a scrivere i pubblici accusatori quando si esercitano nella descrizione di “uno spaccato dell’assordante silenzio dell’intera comunità di Campobello di Mazara, la quale avrebbe consentito al malato di curarsi senza essere arrestato. E infatti c’è da credere che qualche ristoratore sapesse chi era e che, ciò non ostante, gli abbia dato da mangiare, in tal modo indubitabilmente “favorendo” il boss mafioso. E magari conosceva pure i suoi gusti, e con indicibile complicità gastronomica gli ha preparato piatti speciali: ci sta l’aggravante grossa come una casa. Ma senza perdersi nei dettagli, visto che è il paese intero ad aver tenuto bordone: perché non li arrestano tutti, gli abitanti di Campobello di Mazara? Poi come sindaco ci mettono un pubblico ministero e siamo a posto.

E tornando, per chiudere, alla vicenda del medico. C’è un elemento di fanatismo, di crudele forsennatezza, di impietoso delirio persecutorio nell’idea che curare un malato sia riprovevole, e persino illecito, giusto perché si tratta di un criminale. Non è infatti la falsa attestazione di identità (aver simulato di curare il prestanome, sapendo che era un prestanome) ad aver portato in galera questo Tumbarello, né tanto meno è quel reato a procurargli la reprimenda moraleggiante dei magistrati: è che ha curato un mafioso, e togliere un cancro a un mafioso fuori dal protocollo antimafia è illecito.