La nuova musica del governo Meloni
Perché il governo si è scagliato contro Amadeus e il Festival di Sanremo
Negli ultimi giorni si è assistito a un singolare ribaltamento di ruoli e valori che ha investito tanto l’Aula di Montecitorio quanto il palco di Sanremo. Manco fosse Amadeus Bordiga, guai a lui e alla sua carriera in video, se non cede allo squallore di un grido come quello di Sangiuliano che vuole imporgli la scaletta. E’ fedele ai colori dell’Internazionale il conduttore, ed è vero. L’indizio di reato è di quelli gravi nell’anno I dell’era meloniana, con il vigile Piantedosi al Viminale.
Ma, a sua parziale discolpa, c’è da precisare che quella di Amadeus non è l’internazionale di Lenin, ma solo quella di Zhang. E’ vero che il mago Herrera, “l’anarchico” (altra parolaccia, che crea spavento, se persino Repubblica qualche giorno fa titolava a nove colonne “Il ritorno degli anarchici”), negli anni Settanta, su una pagina dell’Unità annunciò che, se solo avesse potuto, avrebbe votato per il Pci. Ma, appunto, sono storie di ieri. I figli degli stranieri, e sono invece storie di oggi, ancora continuano a non avere il diritto di voto. Lo ius soli è riprovato da chi, da Palazzo Chigi, stigmatizza l’invasione islamica come minaccia numero uno per la “Nazione”. Per questo gli artisti, gli sportivi ogni volta che possono denunciano la discriminazione etnica a Roma imperante.
Non contenti di aver già compiuto una metaforica riesumazione degli anni del ventennio, con il ricorso a documenti riservati per rivolgere all’opposizione democratica l’accusa falsa di fare l’inchino ai terroristi e ai mafiosi, e quindi di essere l’anti-Stato con le mani grondanti di sangue, i governanti patrioti perdono anche i nervi. Danno in escandescenze dinanzi a delle banali esibizioni televisive di artisti che si espongono in nome di buoni valori civili. Il Festival, sotto la direzione di Amadeus, è così diventato, nelle sensazioni dei vertici del potere, una sorta di traduzione in termini nazionalpopolari del Manifesto antifascista di Croce. Il potere spara a zero contro il conduttore e gli artisti della sua corte che lanciano innocui proclami sull’essere liberi, sulla sessualità fluida, sul razzismo, sulla Costituzione. Una così non ritornerà mai più, accennava Benigni in un presagio d’addio alla bella Carta. Dinanzi al recupero sanremese di ideali democratici desueti, i neri, per loro natura piagnoni, reagiscono con minacce e recriminazioni.
Abituati alla lagna contro l’universo per il fatto di sentirsi degli underdog, non si assumono mai le loro responsabilità. Il deputato con le corde vocali da strillone e il governante cresciuto con le note nazi-rock diventano così le vittime di chi invoca semplicemente le regole e le forme dello Stato di diritto. Sull’altro versante caldo, due erano i temi inizialmente sollevati dalla vicenda Cospito: le condizioni di salute del detenuto e l’adeguatezza della misura del 41-bis al singolo caso concreto. Poi c’è stata la grave uscita del duo “neomelonico” che con metodo illiberale le suona ad un partito d’opposizione, inficia possibili nuovi sviluppi delle indagini e mette a rischio la sicurezza nazionale. Eppure, per una singolare trasvalutazione dei valori, le zone d’ombra risiedono di sicuro nella condotta e nella composizione della rappresentanza del Pd che ha fatto visita all’anarchico in cella.
Questa versione l’ha suggerita per primo Damilano. Ed è stato seguito a ruota dai soliti fiancheggiatori ogni volta eludenti, per i quali la vera questione è sempre un’altra. E quindi “né con Fratelli d’Italia né con i democratici”. Non l’uso di informazioni riservate per delegittimare l’opposizione è il punto dolente, ma il Nazareno, che è trascinato sul banco degli imputati da Mieli perché ha mandato una delegazione troppo numerosa (sic!) a visitare Cospito. Per Travaglio persino i sondaggi confermano la sua opinione, e cioè che “gli italiani giudicano più severamente la linea del Pd contro il 41-bis al terrorista che le fughe di notizie del duo Donzelli–Delmastro”, dato che “il Pd lancia il sasso e poi ritira la mano” e a Sassari “fu ben più di un saluto”, “una conversazione di diversi minuti, proprio sul 41-bis”. “Perché non dissero subito cos’era successo?”, è solo che la domanda perentoria, l’austero giornalista piemontese con l’amore per la verità, la rivolge non ai due meloniani, ma ai “quattro dem”, che “non la contano giusta”, con i loro “balbettii, ammissioni a rate e contraddizioni”.
Su tutto si procede con la tecnica del rovesciamento. Il problema non è neppure la seconda carica dello Stato, che spolvera il busto amato del duce in una Repubblica nata dalla Resistenza. Il papà con il cuore nero per lui conta molto più del sacrificio dei sette fratelli Cervi. E la colpa ricade allora su chi, con un cervello arcaico, pensa di denunciare i fantasmi della minaccia fascista, intendendo per tale, evidentemente, non un caricaturale ritorno dei regimi del Novecento, ma la centralità della questione della democrazia, che i fatti di Washington e di Brasilia, ma anche i problemi con lo Stato di diritto evidenziati a Budapest e Varsavia, rivelano in tutta la sua attualità. L’inversione dei valori, in chi ancora fugge dal rumore insopportabile della storia, è tale che colpevole non è neppure il Galeazzo che è andato al governo malgrado sfilasse con la divisa dei nazisti (esercito “purtroppo” accerchiato dall’Armata rossa, dicono i governanti del Veneto), ma un rapper che sul palco strappa quella terribile immagine del simbolo del Reich.
Su Fedez cade l’inibizione dei vertici Rai (manco fosse già in onda il terzo Rai-ch), sull’atleta Egonu la minaccia preventiva di non esagerare contro il razzismo, su un altro cantante in gara l’avviso nemmeno bonario a non lanciare un messaggio pervertito. Amadeus diventa così la reincarnazione di Bordiga, e per rimediare deve solennemente ricordare le foibe, su ordine del ministro della verità. Sono poco più di cento giorni che gli anfibi di Giorgia calpestano Palazzo Chigi, ma la nuova musica, dal sapore antichissimo, è già chiara a tutti.
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