Le modifiche al RdC
Perché il reddito di cittadinanza rischia di non sparire: tra otto mesi la verità

La riforma, anzi l’abolizione dello strumento del reddito di cittadinanza è stato un cavallo di battaglia elettorale delle destre, con qualche cautela di Fratelli d’Italia. E infatti si va piuttosto verso una revisione di quella che è oggettivamente una forma di sostegno al reddito, e con ciò di parziale contrasto alla povertà economica. In un momento in cui l’inflazione impazza e la recessione è dietro la porta sarebbe folle qualunque politica volta a togliere tutele a chi ce le ha, salvo non si tratti proprio di abusi. Inutile ripetere che la povertà richiede interventi integrati su più piani o che il suo contrasto è più efficace e mirato se passa dai servizi sociali dei comuni come nel vecchio Reddito di inclusione.
Oggi abbiamo uno strumento basato su automatismi che derivano dall’intreccio delle due funzioni che il reddito di cittadinanza assolve: assistenza sociale e politiche attive del lavoro. Il difetto, lo si è detto mille volte, è nel manico, questa ibridazione di due politiche diverse. Ecco perchè l’intervento del governo, in modo apparentemente saggio, ha come parola chiave il tema degli “occupabili”, ovvero di chi potrebbe lavorare ma non lavora. Perchè non ha trovato lavoro, perchè non gli è stato offerto, o perchè gli è stato offerto ma è stato rifiutato. Ma le tre condizioni sono parecchio diverse. E qui si viene al nodo, che è proprio il concetto di “occupabile”.
Intanto, secondo gli ultimi dati dell’ANPAL su 2,3 milioni di percettori del reddito di cittadinanza sarebbero circa 660 mila quelli in grado di lavorare, numero che l’INPS riduce più cautamente a circa la metà, alla luce delle loro qualifiche e storie lavorative. Quindi molto rumore per poco, visto che gran parte dei fruitori del reddito sono minori, anziani, disabili. In secondo luogo, vi sono persone prive di qualunque formazione e, diciamolo pure, istruzione minima che vanno formate almeno per qualche lavoro. Detto questo, l’approccio del governo appare in teoria piuttosto ragionevole ed equilibrato, fondato come è sulla natura emergenziale, e quindi temporanea dello strumento, e cioè su quel welfare to work che emancipa e rende autonomo il cittadino che fu un cavallo di battaglia, peraltro solo proclamato, del centro-sinistra degli anni ‘90. Ricordato che esistono “working poor” e che pertanto il reddito di cittadinanza può spettare anche a chi lavora – a chi già aveva un lavoro e a chi l’ha trovato nel frattempo – quello che lascia perplessi è piuttosto altro.
Che lo Stato sia davvero in grado di offrire lavori, che sia in grado comunque di formare persone, e aggiungiamo pure che l’ “occupabile” pigro – la figura mitologica del “divanista”, un parassita sociale – debba essere privato di ogni strumento di sussistenza, e con lui quelli che gli sono attorno. E’ in queste pieghe che si cela la sostanza del tema: lo Stato è pronto per questa stretta, alla quale in ogni caso la Costituzione pone dei limiti precisi a tutela della dignità della persona? Ormai il reddito di cittadinanza piaccia o no è almeno due cose: un parametro per un salario minimo legale, spiazzando la domanda di salario inferiore o uguale, e uno strumento di contrasto della povertà, che è cosa diversa da una Naspi e da altre forme di sostegno alla disoccupazione.
Il rischio è pertanto, per un motivo o l’altro, che si approvi una legge-manifesto che cambi poco o nulla. Le criticità attuali sono nel sistema della formazione e nelle politiche attive del lavoro molto più che nell’abuso dello strumento; il quale abuso, sia detto per inciso, pure è imputabile a carenze di controlli. Quando allora ci si appresta a vergare in Gazzetta ufficiale che i famosi “occupabili” riceveranno il sussidio solo ancora per alcuni mesi – otto mesi – è chiaro che si sta rinviando una vera riforma. Perchè poche cose mi paiono sicure come il fatto che tra otto mesi il reddito non sarà tolto a nessuno se lo Stato non avrà fatto la propria parte.
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