Non è garantismo. Non è dottrina Mitterrand. È il rispetto delle leggi quello che ha indotto i giudici francesi a respingere la richiesta di estradizione del governo italiano nei confronti di dieci persone condannate molti anni fa per gravi fatti di sangue e di terrorismo. Nulla ha a che fare la decisione della Corte d’appello di Parigi, poi confermata dalla cassazione, con la “richiesta di giustizia” dei parenti delle vittime. I quali hanno tutto il diritto non solo al dolore, ma anche alla rabbia e persino al desiderio di vendetta che chiunque di noi, o almeno alcuni, proverebbe davanti a un grave lutto prodotto per mano di altri.

Ma non sono loro, non siamo noi, quelli chiamati a giudicare. Sono state le corti d’assise che hanno emesso le sentenze di condanna in Italia, prima di tutto. Quei processi, ci dicono oggi le più alte toghe di Francia, non sono stati perfettamente allineati con quel che prescrive l’articolo 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Che ha nel principio dell’habeas corpus il suo punto fondamentale. E stupisce il fatto che siano proprio alcuni magistrati italiani, non solo gli ex procuratore Armando Spataro e Giancarlo Caselli, ma l’intera categoria nella sua rappresentanza sindacale, l’Anm, a lanciarsi nella difesa corporativa di quei processi con argomenti più vicini al populismo giudiziario che non allo Stato di diritto.

Il processo in contumacia, ci dicono i giudici parigini, non è “giusto processo”, pur se siano stati gli stessi imputati a sottrarsi con la latitanza. È un principio del diritto. Oltre a questo, per chi ha memoria di quei processi, non si può dimenticare il fatto che l’Italia vive, a partire proprio dagli anni Settanta e dal terrorismo, una situazione di perenne emergenza. Leggi speciali e inchieste fondate solo su testimonianze, ovviamente interessate, di collaboratori di giustizia, sono nate allora e persistono ancora oggi con i reati ostativi. La Francia, con il presidente Mitterrand e tutti quelli che seguirono, Chirac, Sarkozy, Hollande e fino a un certo punto lo stesso Macron, ha dato asilo a centinaia di cittadini italiani. Erano innocenti e colpevoli, inseguiti da ordini di cattura per reati gravi o gravissimi o anche lievi. Ma tutti accomunati da una distorsione giudiziaria che non ha consentito una vera applicazione delle leggi con rapidità e ragionevolezza.

Una persona che conoscevo, un bravo tecnico che in Italia aveva un importante ruolo in una multinazionale, è morto esule in Francia senza aver trovato un adeguato ruolo professionale. In Italia era accusato di aver partecipato a una riunione con Marco Barbone in cui si era parlato di armi e attentati. A Barbone, l’assassino del giornalista Walter Tobagi, bastò fare il “pentito” per ottenere dal pm Armando Spataro l’imprimatur che lo porterà presto alla libertà. Non a tutti fu concesso quel privilegio e alcuni ne sono morti. Il patto tra i rifugiati e i governi francesi, quello chiamato “dottrina Mitterrand”, era fondato su un solo presupposto, l’osservazione delle leggi e la non commissione di reati sul suolo francese. A prescindere dai comportamenti tenuti da ciascuno nei luoghi di provenienza. Nulla altro è stato richiesto nei successivi quarant’anni. Nessuna discriminazione è stata mai fatta tra persone né tra reati. Il lavoro chirurgico, quello che ha estrapolato e selezionato i dieci, nove condannati per reati di terrorismo più Pietrostefani cui non è stata mai contestata quell’aggravante, è stato effettuato solo due anni fa, dopo la richiesta al governo francese della ministra Cartabia e la risposta positiva del Presidente Macron.

Sono partiti così gli arresti. E abbiamo potuto vedere le manette ai polsi di un gruppo di anziani tra i settanta e gli ottanta anni, definiti “terroristi”. Come se il tempo si fosse fermato, i capelli non fossero diventati bianchi e le armi fossero ancora in pugno. Davanti a quelle immagini ha senso il riferimento dei giudici francesi all’articolo 8 della Cedu, quello sul “rispetto della vita privata e familiare”. Che non è qualcosa di generico e banale. È il simbolo del tic-tac del tempo che passa. È la base del nostro articolo 27 della Costituzione. Il cambiamento non è solo nel colore dei capelli, è modo di vivere, è ricucitura dello strappo di un tempo, è il ritrovarsi all’interno di una comunità. I percorsi possono essere diversi. Il carcere è solo il più estremo, ammesso che lo si possa e sappia usare per emanciparsi e ammesso che te lo si consenta.

Ma certi ritorni sono senza senso, come quello, per esempio, di Salvatore Buzzi, che si era perfettamente “rieducato” con le proprie forze e poi reinserito nella società con l’apertura a Roma di un pub ben avviato. Aveva scontato ingiustamente cinque anni di carcere speciale a causa degli errori di un gruppo di eroici magistrati che avevano creato quella “Mafia Capitale” che non esisteva. Aveva ammesso reati di tipo economico in complicità con esponenti politici della sinistra laziale, non era accusato di reati contro la persona. Non meritava il “rispetto per la vita privata e familiare”? Lo Stato e la stessa magistratura dovrebbero considerare propri successi tutte le volte che un ex detenuto “riga diritto”, non commette più reati, ma studia, magari si laurea, ha la capacità di creare lavoro e sostentamento per sé e per la propria famiglia senza chiedere reddito di cittadinanza.

È un’altra persona, insomma, diversa da quella che un giorno era stata condannata. Ma non c’è ragionevolezza. Non c’è stata nei confronti di Buzzi (e di tanti altri), ancora parcheggiato in un carcere mentre il suo pub è chiuso, a causa di uno stupido e sballato calcolo matematico della pena, per cui un’associazione per delinquere semplice è diventata più grave di quella mafiosa. Ma c’è stata ragionevolezza, per fortuna, quanto meno in Francia, Paese in cui, evidentemente, le regole europee del diritto hanno più peso di quanto ne abbiano in Italia. E rispetto a una pena “giusta” e tardiva, si è preferito far ricorso alla pena “utile”, che può consistere anche solo nel cambiamento dello stile di vita.

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Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.