Con la decisione di ieri della Corte di Cassazione, la dottrina Mitterand è riuscita ancora una volta a dare una lezione di diritto all’Italia. E anche al governo francese, da cui dipende organicamente e politicamente il procuratore generale che ha presentato ricorso contro la decisione della Chambre de l’instruction della Corte d’appello di Parigi che un anno fa ha rifiutato l’estradizione di dieci rifugiati italiani. I quali erano stati “selezionati” tra i circa duecento cittadini italiani condannati per fatti di terrorismo e riparati in Francia negli anni settanta all’ombra della dottrina Mitterand che qualificava il suo Paese come terra d’asilo. Si tratta di nove ex terroristi responsabili di omicidio e di Giorgio Pietrostefani, cui la parola di un solo “pentito” attribuì il ruolo di mandante, insieme a Adriano Sofri, dell’omicidio del commissario Luigi Calabresi.

Nel 1972. Anno millenovecentosettantadue, e ne stiamo ancora parlando, non come tragico fatto storico, ma come vicenda giudiziaria. E qui siamo a un punto cruciale della storia. Di questa come di altre. In Francia per esempio solo i crimini contro l’umanità, i genocidi, non vanno mai in prescrizione. Sarebbe quindi impossibile, secondo quel regime, pretendere di eseguire quelle condanne, applicare le pene erogate dalle diverse corti d’assise italiane. Ma tutta questa vicenda ha il sapore un po’ amarognolo di accordi politici tra governanti che si sentono obbligati da legacci in patria più che da necessità di giustizia. E del resto che giustizia può mai essere quella applicata quaranta o cinquanta anni dopo i fatti? Quando due anni fa erano improvvisamente scattati gli arresti e il Presidente Macron aveva sospirato “La questione è chiusa”, gli aveva indirettamente risposto Adriano Sofri, chiedendogli ironicamente “e adesso che cosa ve ne fate?”.

Già, e l’Italia, qualora i giudici francesi ne avessero consentito l’estradizione di questi dieci, che cosa ne avrebbe fatto? In Francia, benché la pubblica accusa dipenda dal ministro guardasigilli, i giudici sono giudici, e non si deve pensare che subiscano qualche contaminazione da quella che le toghe italiane considerano una bestemmia, la sottoposizione del pm all’esecutivo. Proprio perché sono indipendenti, i giudici della Corte d’appello di Parigi un anno fa avevano emesso una sentenza che era stata una vera lezione di diritto. E l’insistenza dell’esecutivo francese, con il ministro Eric Dupond-Moretti incalzato dalla stessa Marta Cartabia, che pure è una teorica della “giustizia riparativa”, nel presentare ugualmente il ricorso in cassazione, era parso più che altro un dovere politico verso i cugini italiani.

Due erano i principi cui si erano appellati i giudici per motivare la decisione di negare l’estradizione, quelli previsti dagli articoli 6 e 8 della Convenzione europea per i diritti dell’uomo. Il primo è nella sostanza quello dell’habeas corpus, che contrasta visibilmente con la contumacia, l’assenza fisica dal processo, condizione in cui sono stati giudicati molti degli imputati per fatti di terrorismo. “Ogni persona ha diritto a che la sua causa -dice l’articolo 6- sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale..”. Seguono poi i diritti dell’imputato, e il concetto di “forza”, per cui quella di chi è chiamato alla sbarra deve essere equivalente a quella dello Stato che lo accusa. La parità tra le parti, ecco. E la domanda: può un assente, anche se per propria scelta, avere la stessa forza del suo accusatore? E il processo e la sentenza che ne conseguirà possono essere definite “giuste”?

Qui non è più questione solo di dottrina Mitterand e di diritto all’asilo, ma delle basi dello Stato di diritto, che non possono consentire di giudicare spesso solo sulla base delle dichiarazioni di “pentiti” e dell’applicazione dei reati associativi. Il che non significa pensare che siano tutti innocenti. Paradossalmente, non è questa la cosa più importante. Quanto all’articolo 8 della Convenzione, parla del “diritto al rispetto della vita privata e familiare”, e si capisce bene quanto sia stato rilevante per arrivare a quella sentenza, la considerazione del fatto che questi dieci italiani abbiano rispettato del tutto il patto stipulato con lo Stato francese. E per 40 anni e più si siano attenuti alle regole e alle leggi, non solo non commettendo reati, ma conducendo vite da esemplari cittadini francesi.

Quali migliori forme di reinserimento, quale quello previsto dall’articolo 27 della nostra Costituzione? Dovrebbe compiacersene il ministro Nordio, che pure ha ereditato la patata bollente dalla sua predecessore. Invece “prende atto” di quello che definisce come “ostacolo politico che per decenni ha impedito alla magistratura francese di valutare le nostre richieste”. Ci dispiace contraddirlo, perché il procuratore generale Eric Dupond-Moretti è stato completamente allineato con la posizione del governo italiano. Ma sono stati i Giudici, i giudici indipendenti a scegliere le regole dello Stato di diritto. E anche il diritto all’oblio, al tempo che passa, alle persone che cambiano. Senza questo ci sarebbe stata solo vendetta.

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Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.