Si fa un gran parlare di una possibile riforma in senso abrogativo, o almeno fortemente restrittivo, del delitto di abuso d’ufficio. Lo stesso Ministro della Giustizia si è espresso più volte in tal senso, ricevendo consensi e critiche, com’è naturale per ogni dichiarazione di forte impatto come quelle cui ci ha abituati l’on. Nordio in tema di giustizia. Tutto nasce dal comprensibile disagio di migliaia di funzionari pubblici, da tempo intimoriti dal rischio di imputazioni per abuso d’ufficio nell’esercizio delle loro funzioni; anche chi scrive, già in anni ormai remoti (quando prestava servizio in una pubblica amministrazione) avvertiva l’immanenza di quel rischio ad ogni firma, pur essendo sicuro della propria buona fede e dell’assenza di fini di favoritismo nel suo operato. Occorre tuttavia chiedersi: esiste ancora quel rischio? E se sì, è davvero così tangibile?

La risposta a questa domanda la fornisce il legislatore, che, riformando l’abuso d’ufficio con il D.L. n. 76, ha fortemente limitato la portata della norma incriminatrice. In seguito a quella riforma (all’epoca criticata da più parti come una sorta di “depenalizzazione occulta”) risponde del delitto il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che nello svolgimento delle proprie funzioni intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale, ovvero arreca ad altri un danno ingiusto, “in violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità” (oltrechè, in alternativa, per violazione del dovere di astenersi, come già precedentemente previsto).

Prima di questa modifica bastava che il soggetto attivo avesse agito, genericamente, “in violazione di norme di legge o di regolamento” perché scattasse il reato; e già tale condizione si palesava alquanto restrittiva rispetto a quella del vecchio abuso innominato d’ufficio, la cui genericità effettivamente esponeva il pubblico funzionario ad autentiche forzature del sistema penale, idonee a determinare vere e proprie invasioni di campo del potere giudiziario sull’azione amministrativa.

Oggi in sostanza – se si eccettua il caso, eclatante, dell’agire nonostante il conflitto d’interessi che imporrebbe al pubblico funzionario di astenersi – il reato è configurabile nel concorso di condizioni assai restrittive: ossia violando una norma avente forza di legge (dunque, non un semplice regolamento) che per di più, se correttamente applicata, non lascerebbe al pubblico funzionario alcuno spazio di discrezionalità. Se a ciò si aggiunge il fatto che per il reato in esame è necessario il dolo intenzionale (il fine di ingiusto vantaggio economico proprio o altrui, o di cagionare ad altri un danno ingiusto), si comprende che gli spazi per la configurabilità del reato si sono assai ristretti.

Che le cose stiano così lo ha mirabilmente chiarito la Corte costituzionale, con la sentenza n. 8 del 2022. Nel dichiarare in parte infondata e in parte inammissibile la questione rimessa dal G.u.p. del Tribunale di Catanzaro (che lamentava la sostanziale impunità di illeciti basati sull’esercizio del potere discrezionale della P.A.), la Consulta ha chiarito che la novella legislativa, escludendo dall’area penale i comportamenti caratterizzati da mero “eccesso di potere”, ha inteso scongiurare forme di controllo del giudice penale sull’attività amministrativa discrezionale, evocando fra l’altro la “burocrazia difensiva” (o “amministrazione difensiva”), attraverso la quale i pubblici funzionari si astengono dall’assumere decisioni utili per il perseguimento dell’interesse pubblico, preferendo assumerne altre meno impegnative o restare inerti, per il timore di esporsi a possibili addebiti penali.

E’ vero che buona parte dei processi in corso per abuso d’ufficio si concludevano, già prima della riforma, con l’assoluzione dell’imputato; ma a maggior motivo quelli tuttora in corso, in cui l’imputazione risale a prima del D.L. 76/2020, sono per lo più destinati a concludersi con un nulla di fatto, atteso che vale in subiecta materia il principio di retroattività della legge più favorevole all’imputato. La “paura della firma” da parte dei funzionari in buona fede, pur se ancora percepita, non ha ormai fondamento, ed è retaggio di un approccio legislativo ormai superato.

Il perimetro dell’abuso d’ufficio, insomma, si è ormai ridotto a violazioni intenzionali di norme di legge vincolanti, ossia a comportamenti obiettivamente gravi, laddove il fatto non costituisca un reato di ancor maggiore gravità. C’è davvero bisogno di eliminare anche quest’ultimo baluardo contro tali comportamenti?

Giuseppe Pavich (Magistrato, già Consigliere di Cassazione)

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