Infine, il 7 Marzo del 2023, i cavalli di Giuseppe L’Episcopo – che lasciò questa terra il giorno dell’assoluzione in appello del suo amico Raffaele Lombardo – si sono affrancati dall’accusa infamante di aver incrociato la mafia. L’Episcopo era il proprietario di un maneggio, considerato dalla pubblica accusa “la cassetta delle lettere della criminalità organizzata”, lo spazio nel quale i mafiosi avevano imbucato invocazioni, suppliche e preghiere nei confronti dell’ex presidente della regione siciliana.

Daniel Pennac definì la Sicilia, insieme all’Irlanda, una delle due grandi isole letterarie del continente. Forse, per amaro paradosso, per una beffa della definizione, anche il processo può finire per diventare, nella Trinacria, uno sforzo estroso, creativo, mirabile, al limite della fantasia. Ahinoi, un’ecatombe straziante, un eccidio di diritti e di civiltà, laddove la vita di una persona venga tenuta, per 13 anni, sospesa, agganciata al filo sferzante e velenoso di sospetti e iatture. La Suprema Corte di Cassazione ha finalmente – con una declaratoria di inammissibilità del ricorso presentato dalla Procura Generale di Catania che chiedeva di rifare il processo di appello – liberato Raffaele Lombardo dall’angoscia di una vicenda giudiziaria sfibrante. Liberato, riconsegnato alla vita, come avevano chiesto nelle arringhe del processo di appello i suoi avvocati Enzo Maiello e Maria Licata. Redento dallo stigma della mafiosità, disincagliato dal verghiano “ciclo dei vinti” siciliano che condanna gli uomini a essere ammorbati dalla mafia in ogni dove, in qualsivoglia angolo recondito del paradiso siciliano, elevato a inferno da un armamentario bellico che, nel nome della lotta alla criminalità organizzata, finisce per specchiarsi in essa.

Perché i mezzi prefigurano sempre i fini e mezzi sbagliati non ci consegnano un mondo migliore. Non è assolutamente vero che “Male captum, bene retentum” (“sebbene illegale, la prova viene utilizzata”) abbia a che fare con la giustizia. Il frutto dell’albero avvelenato corrompe e intossica lo stato di diritto. Peggio ancora se, come nell’affaire Lombardo, la prova non aveva diritto di esistere. Non ha a che fare con la giustizia il “Taterschuld”, il processo che accerta non il fatto di reato ma il “tipo d’autore”, la trama giudiziaria che irroga la pena non per quel che si è fatto ma per quel che si è. O che si appare all’esterno, secondo le lenti di una pubblica accusa, di un telegiornale, di una qualsivoglia testata, di un capannello da bar. C’è stato un tempo in cui Raffaele Lombardo è stato raffigurato come algido, famelico, il “cattivo” del totalitarismo manicheo.

Finanche mafioso, anche se, in quelle migliaia di pagine di accuse, non vi fosse un embrione probatorio che attestasse un rapporto con la mafia. Non è giustizia cercare la mafia ovunque e in ogni luogo perché, se tutto è mafia, nulla è mafia. Non è giustizia frammischiarsi nella vicenda politico amministrativa di una regione, destituendo di fatto un governo regionale, annichilendo una classe dirigente. Perché questo, al di là dei giudizi politici, è avvenuto nel luglio 2012 in Sicilia, costringendo quel presidente alle dimissioni. E’ un’altra giustizia che non è giustizia. La Dike: una dea bendata, cieca, che imbraccia una spada. Che a colpi di processi sommari o lunghi ed evanescenti, di doppi binari e regimi speciali, di fattispecie non tassative e determinate come il concorso esterno in associazione mafiosa, di interdittive, misure di prevenzione, scioglimenti dei comuni, ostatività, sacrifica uomini e territori.

Volete davvero continuare a impostare così la lotta alla mafia? Non renderete un buon servizio a Pio La Torre, che immaginò una legge che nulla ha a che vedere con quelle “misure di prevenzione” che ammazzano imprese e posti di lavoro. Non renderete un buon servizio a Piersanti Mattarella che voleva lottare la criminalità organizzata esclusivamente con le regole della buona politica e dello sviluppo. Non renderete un buon servizio a Giovanni Falcone il quale ha insegnato che “il sospetto non è l’anticamera della verità ma del khomeinismo”, che ammoniva: “non si può ragionare: intanto contesto il reato e poi si vede”.

Nessuno tocchi Caino si è occupata del caso Lombardo, sulle pagine di questo giornale, quando era un tabù, un feticcio, e quel presidente, isolato e ostracizzato dai “benpensanti”, per tanti andava verso una condanna sicura. Abbiamo scritto, sul Riformista, sulla scorta di Leonardo Sciascia, di quell’illuminismo siciliano, per il quale la mafia non si lotta con la “terribilità” ma con il diritto. Il processo Lombardo era terribilità, non diritto. I tribunali di questo Paese hanno, infine, forse restituito pannellianamente il maltolto a un uomo, riconoscendo un principio riparatore. La nostra lotta – per superare quel regime dell’emergenza antimafia che dura da ormai trent’anni – continua. Sperando contro ogni speranza. Nel nome non della violenza, delle Erinni che perseguitano ma delle Eumenidi. Nel nome della giustizia che non colpisce alla cieca e depone la spada. Nel nome del diritto.