Il Partito Democratico che paventa l’esame del ddl premierato come l’Armageddon sulla Costituzione è solo un lontano parente di quello che a partire dai primi anni Novanta ne aveva auspicato invece l’adozione. Ieri il senatore dem Dario Parrini, vicepresidente della commissione Affari costituzionali a Palazzo Madama, non ha risparmiato gli strali, prevedendo un «Impatto dirompente che l’inserimento dell’elezione diretta avrebbe di per sé sugli equilibri di fondo della nostra Carta». Le grida alte e la memoria corta vanno insieme. Il Psi di Craxi e poi il Pds di Achille Occhetto, infine il manifesto fondativo del Pd poggiavano sulla possibilità di fare all’elezione diretta del premier una riforma stabile. «L’elezione diretta del premier è una idea di sinistra!», sottolinea, rivendicandola, Claudio Signorile. Il leader della sinistra socialista affonda i ricordi nella storia quando cita il congresso che il Psi celebrò a Torino nel 1978.  «Fu votata con le insegne del Progetto per l’Alternativa: Bettino Craxi, che la volle lanciare con uno storico editoriale su L’Avanti! intitolato “La grande riforma”, voleva l’elezione diretta del Presidente del Consiglio e il rafforzamento dei poteri dell’esecutivo, ma in parallelo al consolidamento delle prerogative del Parlamento».

Da allora il Psi iniziò a tessere la tela del premierato forte provando a coinvolgere il Pci. Giorgio Napolitano ed Emanuele Macaluso furono i più sensibili all’argomento, che raggiunse l’acme nel 1989 con la candidatura alle Europee, nella lista del Pci, del politologo francese Maurice Duverger. Costituzionalista e giurista prestigioso, Duverger animò il Club Jean Moulin intorno alla proposta dell’elezione diretta del capo dello Stato. Venne acclamato dal Pci che riuscì ad eleggerlo tra le proprie fila a Bruxelles. E arrivò poi la riforma – sostenuta a spron battente dal Pds – dell’elezione diretta dei sindaci.
Un modello tanto riuscito da essere rimasto sin da allora attuale. Inscalfibile. È lo stesso protagonista di quella stagione della sinistra, Occhetto, a sottolinearlo al Riformista: «C’è stato un periodo in cui subito dopo l’elezione diretta dei sindaci, su cui mi sono molto impegnato, avevo l’idea che quel modello si potesse estendere a livello del governo centrale, con l’elezione diretta del Sindaco d’Italia». La stagione della primavera dei Sindaci segnò una svolta epocale. Interruppe l’impaludamento continuo delle maggioranze municipali e portò un’ampia partecipazione civica a sostenere i candidati a sindaco che si proponevano per la prima volta al voto diretto. Il modello del sindaco d’Italia può funzionare, se ha ben funzionato quello dei sindaci delle città eletti direttamente dai cittadini. Non avveniva così in passato: si sceglie direttamente il sindaco solo dal 1993. «L’elezione diretta dei sindaci – ricordava Francesco Rutelli in un convegno – ha comportato che i cittadini si sentivano in diritto di dire al Sindaco: fai questo, fai quest’altro. La prossimità diventava partecipazione civica». Ed è un modello, quello del sindaco, che il premierato potrebbe replicare su scala nazionale. «Quella partecipazione popolare, quella vivacità va recuperata. È una distanza che dobbiamo recuperare: quella tra la politica e i cittadini si è fatta troppo grande», diceva Rutelli lo scorso dicembre, raccontando la svolta impressa dall’elezione diretta dei sindaci del 1993.

Arturo Parisi – che capeggiò I Democratici e divenne Ministro della Difesa di Prodi – riprende in mano il programma della coalizione di centrosinistra: rivendica un documento dal titolo “Il Governo del Primo Ministro”. Vi si legge: «Appare opportuna nel nostro Paese l’adozione di una forma di governo centrata sulla figura del Primo Ministro investito in seguito al voto di fiducia parlamentare in coerenza con gli orientamenti dell’elettorato». E poi, osando ancor più ambiziosamente: «Al Capo dello Stato è affidata la funzione di garante delle regole e rappresentante della unità del Paese, funzione che deve essere marcata rivedendo le modalità di elezione in modo da sottrarla alla maggioranza parlamentare pro tempore, esaminando varie possibili modalità, compresa la sua elezione diretta». Oggi non sono pochi, a sinistra, a sostenere le ragioni del premierato. Sono nate due associazioni, nell’ambito del centrosinistra: “Io Cambio” e “Il mio premier è meglio del tuo”, in cui tanti nomi che hanno cuore e radici a sinistra provano a esporre le ragioni di una “grande riforma” innestata sull’elezione diretta del premier. Magari in modo non pasticciato e non confuso come quello di cui sta discutendo la commissione Affari Costituzionali.

Su “Io Cambio” l’invito ad assicurare istituzioni solide è firmato da esponenti di sinistra che vanno dall’ex ministra Giovanna Melandri (Cultura, governo D’Alema) all’ex sottosegretario Natale D’Amico (Finanze, governo Amato II), entrambi cofondatori del Pd. Il loro appello è accorato: «È necessario assicurare al Paese istituzioni solide, con compiti, responsabilità e poteri chiari. E con il giusto tempo a disposizione per operare secondo il mandato ricevuto dai cittadini. Si parla di Premierato e di altre forme di governo, ma sospetti reciproci, pregiudizi e logiche di convenienza elettorale rischiano di prevalere sul buon senso, mettendo ancora una volta a rischio il conseguimento di una soluzione efficace e utile al Paese. Come cittadine e cittadini chiediamo a tutti i partiti e alle istituzioni del Paese una prova di responsabilità e di serietà, e di anteporre il bene dell’Italia a qualsiasi altra logica». Parole a cui fanno seguito quelle del comitato “Il mio Premier è meglio del tuo”.

Uno dei suoi ispiratori, l’editorialista del Corriere della Sera, Antonio Polito, la vede così: «Il centrosinistra avrebbe molto da guadagnare col premierato, se prevedesse una qualche forma di ballottaggio. Sarebbe dunque più utile che abbandonasse la retorica dell’«attacco alla democrazia», e si concentrasse invece su un obiettivo semplice, chiaro e comprensibile per tutti: che il premier venga eletto da una maggioranza, non da una minoranza». Ragionamento che il leader di Iv, Matteo Renzi, traduce in azione parlamentare: «Se Meloni nella riforma del premierato mette il ballottaggio, che ancora non ha messo, noi la appoggiamo». La ritrosia del Pd e gli alambicchi di retroguardia cederanno il passo a una valutazione più seria e meno ideologica? Lo sapremo presto: l’esame sulla riforma riprenderà martedì prossimo, 13 febbraio, con la prosecuzione dell’illustrazione degli emendamenti presentati dai gruppi.
In totale tra emendamenti e ‘sub’ presentati ai 4 emendamenti del Governo ci sono oltre 2000 proposte da esaminare. Tra martedì, mercoledì e giovedì della prossima settimana sono previste diverse sedute, sia in mattinata che in serata.

«Perché non nasca un ‘pasticcellum’, la maggioranza ascolti le nostre proposte: noi non abbiamo presentato 817 emendamenti e non siamo saliti sulle barricate, ma abbiamo preparato un disegno di legge con un disegno coerente. Se si vuole introdurre l’elezione diretta del primo ministro, bisogna farlo bene», sintetizza il capogruppo di Iv al Senato, Claudio Borghi. L’iter potrebbe arenarsi sui numeri: la maggioranza qualificata dei due terzi non è alle viste. Giorgia Meloni sa che una larga intesa non c’è e non ci sarà e guarda già alla scommessa del referendum. Su una “grande consultazione” nel 2025. E se perde? «Se perde il referendum la mandano a casa. Lei fa bene a dire di no, ma dovrà lasciare», dice Renzi. L’esperienza insegna.

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Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.