Ora che la partita sulla riforma Cartabia è giunta al fischio finale si possono azzardare alcune considerazioni. Non piace a molte toghe, non piace agli studiosi di diritto, ha deluso tutti gli antagonisti più accesi. E questo è un bene. Non c’è riforma del processo penale che non abbia scontentato a destra e a manca, salvo i casi di micro aggiustamenti che non hanno cambiato praticamente alcunché di rilevante.

Appena le acque si saranno placate sarà il tempo dei bilanci più minuti per comprendere esattamente cosa attende i cittadini negli anni a venire. Per il momento un primo risultato deve essere annotato a lettere maiuscole: dopo qualche decennio di guerre e lotte al calor bianco la prescrizione scompare dall’orizzonte del processo penale italiano. È un risultato epocale se solo di pensa come si sia giocato in modo spregiudicato sui termini della prescrizione per dettare la sorte dei processi e, soprattutto, di alcuni di essi con imputati di rango.

Invero la prescrizione era di fatto scomparsa dal quadrante del processo penale già con la riforma Bonafede che, congelando per sempre lo scorrere della prescrizione alla pronuncia della sentenza di primo grado, aveva chiaramente detto che il processo da quel momento in poi era del tutto insensibile alla clessidra del tempo.

Un risultato francamente inaccettabile perché lasciava il cittadino in balia delle aule di giustizia di secondo grado e della Cassazione praticamente per sempre. Una condizione di imputato potenzialmente perpetua e senza scampo. Quelli che ora si sono stracciati le vesti davanti alla prima proposta della ministra Cartabia dicendo che molte Corti d’appello non avrebbero retto l’urto della nuova improcedibilità avrebbero dovuto pur dire che a pagare il prezzo di questi ritardi non erano certo i magistrati, ma i cittadini che, da imputati e parti offese, dovevano attendere praticamente sine die una decisione finale.

Certo l’essere passati dal dolce naufragar nel mare del tempo infinito della Bonafede alla cadenze serrate previste dal governo Draghi deve essere stato uno shock per chi già immaginava di poter tenere ancora sotto scacco per anni gli imputati senza mai una sentenza definitiva; prospettiva che deve avere ingolosito soprattutto quei pubblici ministeri che raccolgono messe di assoluzioni e che per definizione non amano i processi rapidi.

Ma torniamo alla vecchia e vituperata prescrizione. Insigni giuristi hanno ricordato in queste settimane che essa misura il tempo entro il quale il legislatore ritiene equo e ragionevole si accertino e si puniscano i reati. Una scelta squisitamente politica che, correttamente, avrebbe dovuto restare fuori dalle mura del processo penale. Se la prescrizione è questione pubblica ed eminentemente politica che riguarda il peso che lo Stato assegna alla consumazione dei reati e alla resilienza dei suoi effetti, l’approccio più corretto sarebbe stato quello di dire che, giunti all’inizio del processo, di prescrizione non si debba più parlare. Lo Stato ha impiegato risorse per accertare i fatti e, iniziato il processo, è giusto che questo vada a compimento perché si stabilisca chi è colpevole o innocente. Per la prescrizione il processo avrebbe dovuto essere in sé un giardino proibito, un muro da non valicare. Dischiuse le aule di giustizia alla prescrizione sostanziale, subentra il tempo della durata ragionevole del processo voluta dalla Costituzione. Niente che abbia a che vedere direttamente con la prescrizione e con il suo fondamento politico. Ecco con la riforma della ministra Cartabia il dado è tratto.

Il tema dei prossimi anni sarà quello dell’improcedibilità e con esso quello della determinazione dei tempi del processo. Il che vuol dire il problema della celerità delle attività processuali, dei controlli sull’efficienza dei giudici, sulla loro produttività, la misurazione fine delle scelte organizzative: tutta roba finora gestita dalle toghe a fini interni di carriera e senza alcuna reale incidenza da parte del ministero e della politica. Ora, invece, un ruolo centrale spetta, in questo delicatissimo snodo della giustizia, a un apposito Comitato tecnico ministeriale voluto dalla Cartabia, messo a lì a far di conto dei tempi del processo ufficio per ufficio.

Una svolta epocale che mette la magistratura, una parte di essa, fuori dal dibattito politico e istituzionale che riguarda la potestà punitiva dello Stato, le sue opzioni di politica criminale, il tempo della prescrizione, assegnando alle toghe la funzione loro propria di custodi del processo e non di gendarmi della legalità penale.

Un giorno, forse, si potrà tornare a discutere in Parlamento finanche di amnistia e indulto senza che qualcuno gridi alla minaccia alla sicurezza nazionale. Con la prescrizione fuori dalle aule si priva una certa magistratura dello strumento che le consentiva di sconfinare nei territori della politica e di ergersi a custode della legalità sostanziale. In futuro ai magistrati dovrebbe toccare in sorte di parlare solo di processi e di render conto della loro ragionevole gestione innanzi al paese. Una svolta all’insegna della Costituzione e della separazione dei poteri; ci voleva un ministro con i fregi della Consulta per chiarirlo.