“Unite for a better future“ (uniti per un futuro migliore). È l’America di Joe Biden. Nel giorno del giudizio elettorale, Il Riformista ne parla con Alexander Stille, giornalista e scrittore statunitense, professore alla prestigiosa Scuola di Giornalismo della Columbia University.

Professor Stille, qual è l’America di cui Joe Biden si è fatto garante e che vorrebbe portare, se sarà eletto, alla Casa Bianca?
La visione di Joe Biden dell’America è quella di un Paese aperto, rispettoso del parere degli altri. È l’America di un presidente che vorrebbe mettere fine alle divisioni e agli odi sociali che hanno caratterizzato l’epoca trumpiana. Quello di cui Biden si è fatto portatore in questa campagna elettorale è stato un appello all’unità, e a un periodo più civile e rispettoso della nostra storia.

In una nostra precedente conversazione, lei ha sostenuto che il low profile che ha caratterizzato la campagna del candidato democratico sia stata, tutto sommato, una scelta azzeccata. Ciò vuol dire che quello di oggi sarà un referendum pro o contro Trump?
Direi proprio di sì. Queste elezioni sono soprattutto un referendum pro o contro Trump. Gli elettori di Biden hanno un giudizio decisamente negativo del mandato di Trump, lo vedono come un presidente che ha fortemente indebolito le istituzioni democratiche del Paese usando il Governo per fini personali e di parte, strumentalizzando e piegando ai suoi interessi i vari rami del Governo. Un atteggiamento che si è rafforzato e radicalizzato in campagna elettorale. Gli esempi che si possono fare in questo senso sono tanti: Trump che chiede al suo ministro della Giustizia di incriminare e spedire in prigione Barack Obama, ex presidente, e Joe Biden suo avversario politico. Abbiamo visto Trump abusare del suo potere presidenziale chiedendo, quasi imponendo, al presidente dell’Ucraina di iniziare una indagine contro Biden per mettere in difficoltà il suo rivale, un chiaro abuso di potere che ha portato i Democratici a chiederne l’impeachment. Ma se queste elezioni si sono trasformate in un referendum sul Presidente è soprattutto per come lui ha gestito la drammatica crisi pandemica. Se è possibile fare una battuta, direi che se Trump sarà sconfitto, più che da Biden lo sarà dal Covid-19 e della gestione scellerata, ondivaga, che lui ha avuto nel contrasto al virus. Una maggioranza del Paese ha giudicato negativamente la risposta del presidente Trump alla sfida del coronavirus. Trump ha rifiutato di dare un indirizzo chiaro alla nazione, lasciando ai singoli Stati di inventare risposte diverse al contagio. Al tempo stesso, ha minimizzato il più possibile il pericolo del virus dicendo che era una semplice influenza, che sarebbe scomparso da un giorno all’altro, poi quando si è stufato delle misure di prevenzione ha chiesto che fossero riempite le chiese durante le feste di Pasqua, ha contestato i governatori democratici che cercavano di contenere il contagio dicendo: liberate il Michigan, liberate il Wisconsin, liberate la Virginia. Ha attaccato le stesse misure di distanziamento sociale nel Paese, per cui era diventato una specie di simbolo di appartenenza politica portare o no la mascherina, col risultato che mentre in Europa durante l’estate il virus era molto contenuto, negli Stati Uniti ha dilagato in tanti Stati che non erano stati colpiti durante la prima ondata. Gli Stati Uniti sono il primo paese al mondo per morti per il coronavirus, con 225mila vittime. Un record tragico.

Quattro anni fa, Trump sfondò nell’America più profonda, quella che più aveva subito gli effetti negativi, in termini di posti di lavoro persi e di un abbattimento delle tutele sociali, di una globalizzazione senza regole. In quella parte di elettorato, quello dei colletti bianchi e delle tute blu, Biden è riuscito a entrare?
Non c’è dubbio che una delle chiavi della vittoria di Trump nel 2016 è stata aver spostato una parte importante del voto democratico tradizionale, quello degli operai, dei bianchi senza laurea che lavoravano nelle fabbriche, nell’industria, verso il partito Repubblicano, per la prima volta. Sia il Partito democratico che quello tradizionale Repubblicano hanno sottovalutato l’impatto negativo della globalizzazione su questa parte dell’elettorato, e questa parte ha scelto di punire il Partito democratico anche perché Trump si è presentato come paladino della classe operaia. Su quel fronte, Trump ha risposto in due modi: per quanto riguarda la politica economica, non ha fatto granché per eliminare o per lo meno accorciare le disuguaglianze che aveva denunciato nella sua prima campagna presidenziale. Il pilastro del suo programma economico è stato un grande taglio delle tasse, che ha favorito però prevalentemente i ceti più alti: l’1% più ricco risparmiava qualcosa come 60mila dollari all’anno in tasse mentre uno della classe operaia magari ne risparmiava 600. La sua politica economica si è rivelata alla fine la tradizionale politica dei repubblicani che favorisce la classe dei donatori. Quello che lui ha invece dato a quella parte di elettorato, è un marcato senso di appartenenza tribale, a cui ha fatto appello per essere rieletto. Un appello che ha alimentato l’odio razziale. Pochi giorni fa, in Minnesota, Trump davanti ad una folla quasi esclusivamente bianca ha parlato di “buoni geni” di quella folla, dicendo che erano dei cavalli di razza e che se Biden avesse vinto il Minnesota sarebbe stato ridotto ad un campo profughi. È interessante rimarcare che nel passato il Partito repubblicano prendeva la maggioranza dei voti dei bianchi con la laurea, mentre adesso perde molto sia tra bianchi con un titolo di studio superiore sia tra le donne, perché questi discorsi non piacciono a una parte dell’elettorato, come quella a cui accennavo, mentre eccitano quella più radicalizzata, border line con il suprematismo bianco o quella che sostiene che, in fondo, Trump dice quello che noi diciamo in privato ma che non osiamo esternare in pubblico. Invece a un’altra parte di elettori, si spera la maggioranza, non piace una retorica come quella di Trump che divide, lacera il Paese. In questa chiave, una delle armi più efficaci di Biden è stata quella di presentarsi come il candidato che vuole unire l’America e reintrodurre un approccio più dignitoso e rispettoso nel discorso politico.

A proposito di donne. Quanto ha pesato in questa campagna elettorale e quanto potrebbe pesare in caso di vittori di Biden, la sua vice Kamala Harris?
Alla fine, la presenza della Harris non sembra essere stata decisiva. Lei ha avuto un profilo abbastanza basso durante la campagna elettorale, però va detto che in genere la regola più importante nell’indicare un vice presidente è che il prescelto non finisca per nuocere. Kamala Harris ha aiutato senza nuocere, la scelta di una donna di colore ha mandato un segnale rassicurante all’elettorato nero, che è uno dei pilastri dell’elettorato democratico, e un segnale positivo alle donne, che forse rappresentano pilastro più grande. Inoltre, Kamala Harris è di sinistra senza però esserlo troppo. Si presenta bene, certamente ha più carisma di Biden. Negli ultimi giorni di campagna, Trump ha cercato di fare di lei il suo avversario, dicendo che Biden sarebbe stato esautorato dopo qualche settimana al potere e il presidente sarebbe stata la Harris, ma non credo che questo discorso abbia delle gambe lunghe.

Si è detto e scritto che il king maker di Biden sia stato Barack Obama. L’eventuale vittoria di quello che è stato il suo vice, può configurarsi come la rivincita di Obama?
Non direi che Obama sia stato il king maker di Biden. Chi lo è stato veramente è un deputato nero del South Carolina, Jim Clyburn, che ha dato il suo appoggio a Biden quando lui era nel momento più basso nelle primarie democratiche, aveva perso le prime primarie e si andava in South Carolina, dove l’elettorato democratico è formato in grande maggioranza da cittadini neri Naturalmente il fatto che Biden sia stato il vice presidente di Obama, è stata una specie di garanzia immediata per molti elettori neri che hanno visto in lui una persona affidabile.

La prima vittoria di Obama è stata caratterizzata dalle parole “Yes we can”, quella di Trump da “America first”. E Biden?
Lo slogan più efficace di Biden è fatto di tre “b”: build back better, ricostruire meglio. Recuperare ciò che era stato prodotto negli anni di Obama, ma facendo meglio. Ad esempio estendere la sua riforma sanitaria a quei cittadini che non ne avevano beneficiato; fare di più per rendere più progressivo il nostro sistema fiscale, per affrontare la crisi climatica del riscaldamento globale, e quindi prendere l’indirizzo e il tono della presidenza Obama ma al tempo stesso rispondere alle nuove esigenze di questi ultimi otto anni, compreso alcune delle problematiche che la vittoria di Trump aveva posto, come il dramma di una classe operaia che si è sentita mortificata. Da Obama, oltre Obama. È l’orizzonte dell’America di Joe Biden, se sarà lui il quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti.

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Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.