Fine pena, fra meno di cinque mesi. Che ora gli sembrano un’eternità: «Ho paura. Nella mia sezione ci sono parecchi malati: tosse e febbre alta. No, non vengono isolati. E nessuno usa guanti e mascherine. Tamponi? Mai visti». Aleksey, ma il suo vero nome è un altro, risponde al Riformista da una colonia penale qualche centinaio di chilometri a sud di Mosca. Ha 32 anni. Ne ha passati ormai quasi tre a scontare una condanna per possesso di droga. I tribunali ci vanno pesanti col possesso, in Russia. Chiede di rimanere anonimo anche perché sta parlandoci da un telefonino, e i telefonini in prigione sono proibiti. «Vivo in una “zona” di 600 detenuti», continua nello slang degli zek, i carcerati. «Niente celle: dormitori, tipo caserma. Nel mio siamo in settanta. Letti a castello. Sopra di me c’è uno malato. Gli danno vitamina C e antibiotico ma non guarisce.

Un altro che non riusciva più a respirare l’hanno portato via. I medici in tutta la “zona” sono tre, con tre infermieri. Non hanno attrezzature. Non possono far molto». Da quando il Covid-19 attanaglia il Paese – oltre 145mila casi al 4 di maggio, con balzi di anche 10mila contagi ogni giorno – sono decine le testimonianze simili a quelle di Aleksey raccolte dalle associazioni per i diritti umani. Grazie ai telefonini proibiti, perché da più di un mese il già opaco sistema carcerario russo è diventato impenetrabile. Niente più visite dei familiari, niente più pacchi, limiti ai colloqui con gli avvocati. Una nuova legge sulle fake news è stata usata contro i resoconti di attivisti e giornalisti.

Ma alla fine il Servizio penitenziario federale (Fsin), equivalente russo del nostro Dap, ha dovuto ammettere che il coronavirus è arrivato dietro le sbarre: ufficialmente, i positivi sono una quarantina tra i detenuti e oltre 270 tra il personale dell’amministrazione. «Questi dati vanno moltiplicati per dieci», dice al Riformista Olga Romanova, responsabile di Rus’ Sidyashchaya (,”Russia imprigionata”), una Ong che aiuta i reclusi e le loro famiglie. «Ci contattano molti dipendenti del Fsin, terrorizzati dalla situazione e dai tentativi dei loro capi di minimizzarla». Nelle istituzioni penali russe «né i prigionieri né gli agenti hanno modo di soddisfare regole di distanziamento sociale», afferma la sociologa della vita carceraria Olga Zeveleva. «I dispositivi di protezione personale sono troppo pochi, e non vengono fatti test a chi ha i sintomi del Covid: le testimonianze sono univoche». E se i dirigenti dell’amministrazione penitenziaria dicono “tutto sotto controllo” «è solo perché non vogliono passare per i guardiani di prigioni-focolaio». Manca la volontà di acquisire dati certi e implementare misure conseguenti, dice Zeveleva. «Una ricetta per il disastro».

Se l’epidemia travolgesse in pieno le prigioni russe, le conseguenze sarebbero devastanti. La Russia ha la quarta maggior popolazione carceraria del mondo: 518mila persone. Altamente vulnerabili: oltre 9.500 hanno più di 60 anni; il 10% dei detenuti è positivo all’Hiv; almeno 14mila sono affetti da tubercolosi conclamata. «C’è tanto Hiv perché un terzo dei carcerati è dentro per droga, spesso ne fa uso e non ci sono programmi di recupero né assistenza igienico-sanitaria specifica», spiega Ksenia Runova, ricercatrice di sociologia della salute all’Università Europea di San Pietroburgo. «La diffusione della tubercolosi è invece dovuta in buona parte alla scarsa ventilazione di celle e ambienti comuni». Le stesse pareti del carcere sono un ricettacolo di insetti, sporcizia e agenti patogeni: sono rivestite di un cemento poroso che sembra lava solidificata. Lo chiamano shuba (“pelliccia”), nel gergo della galera. È abrasivo, a spuntoni irregolari. Ed è «impossibile da sanificare», sottolinea Olga Romanova. Il pericolo sanitario è un incubo permanente, per i detenuti russi.

Associato alla tortura: «Per estorcere delazioni, le guardie ti mettono in cella un malato di tubercolosi», racconta Romanova. Una cinquantina di casi di tortura e abusi in carcere sono stati perseguiti dalla magistratura dopo la diffusione sui social, due anni fa, di un video shock che li documentava. Violenza gratuita e abusi risultano anche da immagini riprese dopo la rivolta scoppiata il 10 aprile scorso nella colonia penale n. 15 di Angarsk, in Siberia. Almeno un morto. E di 69 insorti le famiglie e gli attivisti di Rus’ Sidyashchaya non hanno più notizie. Viste le caratteristiche del sistema carcerario, «il rischio di infezione è molto alto», e un’amnistia per chi non ha commesso reati violenti o è a fine pena «potrebbe aiutare a limitarlo», dice Olga Romanova.

Ma non si sta andando in questa direzione. Un piano per scarcerazioni mirate elaborato dall’Istituto dei diritti umani di Mosca è rimasto sulla carta. Non ci sarà nemmeno l’amnistia attesa per il 75° anniversario della vittoria nella ”Grande guerra patriottica” (la II Guerra mondiale). Oltretutto, non si tengono più le udienze per la liberazione condizionale: non rientrano tra le attività giudiziarie “essenziali” sopravvissute al lockdown. «Una parziale amnistia sarebbe auspicabile, concorda la sociologa Runova. «Ma in Russia abbiamo difficoltà con la risocializzazione, molti ex detenuti diventano dei senza tetto: la situazione peggiore, durante un’epidemia».

All’amnistia quindi, «si dovrebbe accompagnare un adeguato programma di supporto». Semmai, sta succedendo il contrario: «Il corso tecnico-universitario di idraulica che stavo seguendo è stato sospeso», racconta il detenuto Aleksey: «Probabilmente non potrò avere il diploma su cui contavo per ricostruire la mia vita». Riattacca. Se lo scoprono, insieme alla sim gli sequestrano l’ultimo contatto col mondo. Intanto, niente più studio. Forse lo metteranno a cucire mascherine chirurgiche. Sta avvenendo in 120 istituti. In altri va molto peggio: i detenuti della colonia penale n. 37 di Primorsky Krai, nell’estremo oriente russo, devono rimpiazzare nei campi la manodopera cinese tagliata fuori dalla chiusura della frontiera: «Lavorano senza paga, in condizioni di schiavitù», denuncia Olga Romanova. Paure, abusi, annullamento delle speranze, rischio sanitario intollerabile. E lavoro forzato, nella miglior tradizione dei vecchi gulag. È quanto offre il sistema carcerario russo al tempo della pandemia. C’è aria di catastrofe imminente, nelle galere di Vladimir Putin.