Non sono state sufficienti le maxi inchieste contro la ’ndrangheta – ad iniziare dalla più volte citata ‘Rinascita Scott’ – per far nominare il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri a capo dell’antimafia. Il Plenum del Consiglio superiore della magistratura, con una maggioranza schiacciante, gli ha preferito Giovanni Melillo, attuale procuratore di Napoli. Rispettate dunque le previsioni della vigilia che davano in pole l’ex capo di gabinetto del ministro della Giustizia Andrea Orlando (Pd), nonostante in Commissione per gli incarichi direttivi avesse preso un solo voto, a differenza dei due che erano andati a Gratteri e a Giovanni Russo, quest’ultimo ex vice di Federico Cafiero de Raho alla Dna.

Per Melillo hanno votato ieri i cinque consiglieri di Area, la corrente progressista delle toghe di cui è esponente, i due laici pentastellati, Alberto Maria Benedetti e Filippo Donati, e quello in quota Forza Italia, Michele Cerabona. Al procuratore di Napoli sono andate anche le preferenze di tutti i togati (tre) di Unicost, la corrente di centro, e quelle dei due capi della Cassazione, il primo presidente Pietro Curzio e il pg Giovanni Salvi, anch’essi esponenti della magistratura progressista e che per l’occasione hanno deciso di non astenersi come fanno normalmente. Per Gratteri, invece, hanno votato i due pm antimafia Nino Di Matteo e Sebastiano Ardita, i due togati di Autonomia&indipendenza Giuseppe Marra e Ilaria Pepe, i laici in quota Lega Stefano Cavanna ed Emanuele Basile, nonché Fulvio Gigliotti, l’altro laico in quota M5s. A Russo, infine, sono andati i voti dei togati (quattro) di Magistratura indipendente e quello di Alessio Lanzi, il secondo laico in quota Forza Italia al Csm.

La discussione si è aperta con l’illustrazione dei percorsi professionali dei tre magistrati. Russo, prima pm a Napoli, è alla Dna dal 2009 e dal 2016 ha l’incarico di procuratore aggiunto. Gratteri, invece, è stato sempre in Calabria: pm a Locri, poi a Reggio e infine procuratore a Catanzaro. Melillo, infine, dopo aver fatto anch’egli il pm a Napoli, è stato al Segretariato Generale della Presidenza della Repubblica e poi a via Arenula come capo di gabinetto del ministro della Giustizia Andrea Orlando (Pd) nella scorsa legislatura. Gli interventi più duri in Plenum sono stati quelli Di Matteo ed Ardita. L’ex pm del processo ‘Trattativa Stato-mafia’, prima di essere eletto al Csm, prestava servizio proprio alla Procura nazionale antimafia dove aveva avuto uno scontro con Cafiero De Raho al termine del quale era stato “rimosso” dal pool che si stava occupando delle indagini sui mandanti occulti delle stragi del 1992.

«Gratteri in questo momento è l’unico magistrato effettivamente in prima linea contro la criminalità organizzata, in particolare la ’ndrangheta, più pericolosa e temibile che esiste», ha esordito Di Matteo. «Si tratta – ha aggiunto – di uno dei magistrati più esposti al rischio. Sono state acquisite notizie circostanziate di possibili attentati nei suoi confronti poiché in ambienti mafiosi ne percepiscono l’azione come un ostacolo e un pericolo concreto. In questa situazione una scelta eventualmente diversa suonerebbe inevitabilmente come una bocciatura e non verrebbe compresa da quella parte di opinione pubblica ancora sensibile al tema della lotta alla mafia e agli occhi dei mafiosi risulterebbe come una pericolosa presa di distanza istituzionale da un magistrato così esposto». «Dobbiamo avvertire la responsabilità di non cadere in questi errori che hanno pericolosamente marchiato il Csm e creato le condizioni di isolamento, terreno più fertile per omicidi e stragi», ha quindi sottolineato Di Matteo, riferendosi chiaramente a Giovanni Falcone a cui venne preferito Antonino Meli per la Procura di Palermo.

«È come se la storia non ci avesse insegnato nulla», ha rincarato la dose Ardita, secondo cui «la tradizione del Csm è di essere organo abituato a deludere le aspirazioni professionali dei magistrati particolarmente esposti nel contrasto alla criminalità organizzata, finendo per contribuire indirettamente al loro isolamento. L’esclusione di Gratteri sarebbe non solo la bocciatura del suo impegno antimafia, ma un segnale devastante a tutto l’apparato istituzionale e al movimento culturale antimafia».
A gettare acqua sul fuoco il togato progressista Giuseppe Cascini: «Poche settimane fa sono stato tra i primi firmatari di una richiesta di apertura di una pratica a tutela del procuratore Gratteri e dei magistrati di Catanzaro per i gravissimi attacchi subiti ma ritengo molto opportuno, sul piano della politica giudiziaria, che a dirigere quell’ufficio sia destinato un magistrato che può vantare l’esperienza della direzione della più grande procura d’Italia». «Sono convinto – ha proseguito Cascini – della necessità di mantenere un giusto equilibrio tra le esigenze di impulso e di coordinamento e la autonomia delle procure territoriali».

Un approccio “prudente”, come è stato stigmatizzato da Cavanna, favorevole ai modi di fare “ruspanti” di Gratteri. Botta e risposta poi fra Di Matteo e Cascini a proposito dei colloqui investigativi con i mafiosi che verrebbero svolti alla Dna. Di Matteo ha smentito Cascini il quale aveva affermato che non essendo verbalizzati devono essere fatti con grande attenzione dai magistrati. «Sono anche videoregistrati», lo ha corretto Di Matteo. Per Gratteri questa è la seconda delusione cocente dopo il 2013. Era stato Luca Palamara a svelare come avvenne la bocciatura di Gratteri quando il suo nome venne scelto dall’allora premier Matteo Renzi per diventare ministro della Giustizia. Convocato d’urgenza a Roma, Gratteri chiese carta bianca per “ribaltare il sistema della giustizia”. La voce “si diffuse tra le correnti e il ‘Sistema’ – racconta Palamara – si mise in moto per bloccare tutto”. La sua colpa? Essere “molto autonomo, fuori dalle correnti e per di più intenzionato a fare rivoluzioni”. “Il Quirinale venne preso d’assalto da procuratori più importanti” e lo stesso procuratore di Roma Giuseppe Pignatone confidò a Palamara “di aver avuto in quelle ore contatti dai capi corrente”. Giorgio Napolitano prese atto “che la cosa non si poteva fare”.

Renzi, però, salì comunque al Colle con il nome di Gratteri, ricevendo in risposta un no secco. “Gratteri non era un problema solo in quanto Gratteri: la mossa di Renzi era una sfida al sistema delle correnti e dei grandi procuratori”, aggiunse Palamara, sempre profetico. Vicinanza a Gratteri è stata espressa con una nota da parte dei parlamentari grillini della Commissione Antimafia: «Non è il momento di creare divisioni ma è dovere di tutti serrare le fila, perché crediamo che il lavoro di squadra tra Melillo e Gratteri possa giovare al Paese tutto. L’Italia ha bisogno di magistrati competenti e coraggiosi e Gratteri rappresenta uno degli esempi migliori di uomo delle Istituzioni che, da sempre, sacrifica la propria vita per il bene di tutti».