Von der Leyen ha ragione quando reclama un giro di vite alle sanzioni contro la Russia. Allo stato dell’arte infatti, si tratta di un filtro a maglie neanche tanto strette che permette a Putin di sopravvivere. E quindi finanziare la sua guerra. Ragioniamo su tre fronti: energia, commercio e finanza. Nel 2024, le forniture di gas russo all’Ue coprivano ancora il 18% della domanda. Includere nell’embargo il Nordstream 2 vuol dire fare ancora più pressione alle entrate del Cremlino. Il gas resta il maggiore contributor alla sua spesa pubblica. Mentre il petrolio sta lentamente declinando.

Ieri era a 62 dollari al barile, soglia al di sotto della quale Putin comincia a non sapere come pagare pensioni e compensi dei soldati. Il gas invece ha chiuso a 35 €/MWh (circa 38 dollari). In questo caso, il break-even è di 25-30 dollari. Se si aggiunge il fatto che, negli ultimi anni, il gas ha arricchito tutti i produttori, al Cremlino si può ancora dormire tranquilli. Più complessa è la parte commerciale. L’Ufficio d’informazione fi nanziaria della Banca d’Italia sottolinea che il monitoraggio di quali settori o prodotti abbiano risentito maggiormente delle sanzioni resta un lavoro in corso. Solo lo scorso anno, Bruxelles ha introdotto il reato di elusione delle sanzioni finanziarie, lasciando le competenze alle autorità nazionali. Troppo poco tempo quindi per capire se la direttiva Ue funzioni. Del resto, sul fronte del manifatturiero e del trasferimento tecnologico, sappiamo che la Russia dipende molto di più dall’Europa di quanto quest’ultima sia schiava di Gazprom. Resta comunque difficile monitorare al dettaglio l’agenda di incontri di un imprenditore europeo fuori dalla giurisdizione Ue.

Il 17esimo pacchetto di sanzioni, varato dalla Commissione mercoledì, punta il mirino sulla shadow fleet: la flotta ombra di carrette del mare russe che aggirano le sanzioni sul petrolio. Manca un meccanismo per rilevare e scoprire quel mondo di ghost businessmen che mantengono ancora legami con il mercato russo. Più efficace e immediato sarebbe agire sul fronte finanziario. Nel 2014, al momento dell’annessione russa della Crimea, Putin diede ordine alla Banca centrale di creare una fortezza finanziaria per contrastare eventuali ritorsioni degli Usa. C’era Obama alla Casa Bianca. Tuttavia, non venne tenuto conto né del tempo, né degli altri interlocutori bancari. Dieci anni dopo, i bastioni di quella struttura non reggono più. Una guerra costa. E i 300 miliardi di euro congelati fuori dalle casse moscovite potrebbero tornare comodi. Problema: quei fondi non sono solo negli States, ma in banche europee, svizzere, britanniche, perfino giapponesi, oppure a Monaco, Singapore e Isole Vergini.

C’è poi lo Swift, il sistema di messaggistica sulle transazioni internazionali da cui la Russia è esclusa. La sede legale è a Bruxelles, quindi lontana da eventuali amici americani pronti a un beau geste avventato pro Putin. Il fatto è che mettere in ginocchio un regime con una guerra di logoramento, com’è quella dell’embargo, richiede pazienza. Il Sudafrica dell’Apartheid venne isolato dal mondo negli anni Sessanta. Mandela uscì dal carcere solo nel 1990. Oggi le condizioni dell’economia russa sono sì difficili, ma non alla frutta. Il deficit sta salendo. I tassi di interesse sono alti. L’inflazione è oltre il 10%. Le sanzioni, come ha detto von der Leyen, devono mordere di più.