“Essere informati” solo perché leggiamo titoli
Rapporto Agcom, scrolla la quantità ma crolla la qualità: attenzione massima di 30 secondi, oggi c’è l’illusione di sapere

Lo sospettavo da tempo, ma da alcuni giorni certi dubbi sulla “letargia” informativa degli italiani hanno trovato una conferma autorevole: quella dell’AGCOM, con il suo primo Osservatorio annuale sul sistema dell’informazione.
Leggendo il rapporto si ratifica nero su bianco una sensazione diffusa tra chi osserva con occhio critico il panorama mediatico nazionale: siamo informati, sì; ma in modo superficiale, intermittente, spesso passivo. E soprattutto, lo siamo per abitudine, non per scelta consapevole. È come se l’informazione avesse perso la sua forza interrogativa, la capacità di smuovere, provocare e risvegliare il sacro fuoco del dubbio; senza il quale – oggi – il dibattito si polarizza e svilisce ogni sfumatura, anche quella che può nascere dal confronto tra fonti.
Attenzione massima di 30 secondi
E mentre ci illudiamo – con un’attenzione massima (quando va bene) di trenta secondi – di “essere informati” solo perché leggiamo titoli e facciamo scroll sui social, la nostra capacità di discernere e riflettere si assottiglia. Umberto Eco – ben prima dell’invasione dei feed e delle stories – ci aveva avvertiti che “la televisione ha promosso l’imbecille del villaggio a portatore di verità” (La bustina di Minerva, 1995); oggi potremmo dire che i social hanno trasformato ogni sguardo distratto in un’illusione di sapere. Un’illusione che – spiace dirlo – si traduce in una classe dirigente spesso non all’altezza, che fa dell’ignoranza e della sciatteria comunicativa una medaglia da esibire. Non a caso Riccardo Luna, sulle colonne del Corriere, si interroga da tempo su “cosa è andato storto” nel nostro rapporto con il web, arrivando a una contro-tesi forte: internet, da dono, è diventato un pericolo.
Non è più la quantità di informazione a mancare, ma la sua qualità; così come non è l’accesso il problema ma la capacità di lettura dei dati. E a proposito di numeri, il rapporto ci dice cose molto interessanti.
Sorpasso della rete, troppi “like” e poche nicchie
Il dato più eclatante del rapporto Agcom è il sorpasso definitivo della rete sulla televisione: oltre il 50% degli italiani si informa online, mentre la TV scende al 46,5%, perdendo 21 punti percentuali rispetto al 2019. Ma il punto non è solo il mezzo: è il modo. I social media rappresentano oggi la porta più comune di accesso alle notizie (19,8%), seguiti dai motori di ricerca (17,9%) e, con distacco, dalle app e dai siti delle testate giornalistiche. Solo il 6,6% degli italiani ha un abbonamento digitale a un quotidiano; eppure, il 50,5% riceve notizie prima dai social che da qualsiasi altra fonte. La lettura si affianca sempre più alla visione e all’ascolto di contenuti, specie tra i più giovani. Ma nel complesso è un’informazione onnipresente, consumata più che cercata, spesso ridotta a titoli, notifiche, frammenti. I gesti prevalenti – il click, il like – raccontano un rapporto epidermico con l’attualità; azioni come commentare, discutere, condividere – che avevano fatto la fortuna dei primi network – sono sempre più marginali (solo il 14,6% condivide link di notizie, appena il 6,1% avvia una discussione). A questi dati si accompagnano due effetti collaterali: da un lato, la progressiva riduzione dei forum, oggi relegati a fenomeni – pur interessanti – di nicchia; dall’altro, la lenta ma significativa crescita delle newsletter, utilizzate ancora solo dal 3,6% della popolazione. Si tratta di una minoranza, ma in espansione tra le fasce più istruite e professionali, spesso alla ricerca di sintesi curate e affidabili. Anche se il dato non è esplosivo, le newsletter si configurano sempre più come un format di “ritorno alla lentezza”, alternativa alla velocità compulsiva dei feed social.
Curiosamente, sono gli over 65 – non i giovani – a risultare più attivi nella partecipazione informativa sui social: segno che la padronanza tecnica non coincide necessariamente con consapevolezza critica. I nativi digitali sembrano immersi in un flusso continuo e sterile: scrollano, scorrono, ma non reagiscono. La logica della notizia “che ti trova” ha soppiantato quella del cittadino che cerca, confronta, seleziona. Nel frattempo, i quotidiani cartacei scivolano al 17,2% di lettori, e il giornalismo d’approfondimento fatica a reggere il ritmo della velocità. Si diffonde una dieta mediatica rapida, frammentaria, che raramente genera conoscenza e ancor meno consapevolezza. L’informazione, oggi, non erode più il conformismo: lo sfiora, lo accompagna, talvolta lo amplifica.
La sfiducia non basta: ci vuole discernimento
C’è infine il tema – cruciale – della fiducia. Il 65,6% degli italiani dichiara di fidarsi di almeno un mezzo d’informazione, ma si tratta soprattutto di canali tradizionali: TV, radio, carta stampata. La rete non convince: solo il 15,7% considera affidabili i social media; gli influencer, appena il 2,2% (4,6% tra i giovanissimi). Ma questo scetticismo non si traduce in maggiore selettività; al contrario, la sfiducia convive con un’abitudine diffusa al consumo distratto e acritico. Persino la televisione, che mantiene un certo prestigio, resta ancorata a logiche conservative: rincorre eventi, ma non orienta; amplifica il rumore, ma non costruisce visione. La politica interna, la cronaca e gli esteri occupano due terzi dello spazio informativo. Il resto (e qui lo squilibrio secondo me) va a temi cruciali come giustizia, cultura, ambiente che restano marginali o focus per inchieste ben fatte ma viste da un pubblico “già strutturato”.
È un sistema, quindi, che si è adattato all’immediatezza, senza investire nella profondità; e in questo scenario la vera emergenza non è tanto la disinformazione (che pure è grave), ma la sfiducia nella possibilità stessa di cambiare passo sul piano critico ed educativo. Il che è ancora più grave. Non ci manca infatti l’accesso ma un metodo: non ci mancano notizie, ma il tempo e l’attitudine per leggerle, interpretarle, metterle in relazione per poi farne scelte.
Del resto, dare un’occhiata non è lo stesso che guardare – o vedere – (dal greco ὁράω, horáō, da cui deriva “teoria”) così da giungere alla considerazione per cui dovremmo considerare il “vedere” come un vero e proprio atto di orientamento e discernimento del senso delle cose. Questa capacità di valutazione è un vedere in vista di un’azione: il discernimento non è dato da una particolare intelligenza di cui si è dotati, né da un’enfasi culturale o spirituale accentuata: è la tessitura di una relazione che coinvolge sempre persone o realtà. Se, nell’informarsi, non si crea una relazione che superi la soglia dell’emotivo, prevarrà la passività emersa nel rapporto fin qui commentato. Un esempio per tutti il binomio vaccini-autismo che è privo di qualsiasi nesso scientifico e logico ma non sradicabile da una fetta non piccola di popolazione come ostinarsi dogmaticamente a dire che 2+2 fa cinque.
Tutto questo, vedete, ha un risvolto politico e civico: la democrazia, oggi, non si gioca solo nelle urne, ma nello sguardo critico con cui scegliamo a chi dare ascolto. E finché non affronteremo questa sfida educativa alla radice, continueremo a galleggiare nel rumore, convinti di sapere tutto mentre in realtà stiamo solo smettendo di capire.
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