La Chiesa e le polemiche giustizialiste
Regola e misura: la lezione di Zuppi al paese dei veleni eterni
È a suo modo virale il podcast che Matteo Zuppi ha dedicato alla virtù cristiana della prudenza. Matteo Zuppi è il modo semplice, spoglio di titoli e sigilli, con cui il cardinale di Bologna, neopresidente della Cei, si presenta all’ascoltatore. Il tono è pacato, le parole misurate, la precisione teologica diluita in immagini, evocazioni e endiadi che servono a rendere comprensibile il discorso senza svilirlo in una mera predicazione morale, scolorita apposta per renderla commestibile al palato grezzo della società secolarizzata.
È, forse, il dramma pastorale della Chiesa del Terzo millennio che deve preservare la solennità di un dogma complesso e profondo dalle diluizioni moderniste, compromissorie, anomiche, moraleggianti. Ascoltare quelle parole e identificare in colui che le ha pronunciate il nuovo reggitore della comunità ecclesiale, il custode della comunione sinodale in Italia dovrebbe rassicurare anche quanti dalla fede sono distanti, ma avvertono l’autorevolezza dell’annuncio evangelico e ne restano comunque attratti. Il paese ha un bisogno quasi disperato di leadership autorevoli, di profeti, di uomini e donne che manifestino e rendano percepibile la propria assoluta coerenza tra parole e opere, tra fatti e discorsi. Draghi e Mattarella sono al vertice di una piramide di gradimento (come la si definisce) che non è altro che l’espressione sintetica della consapevolezza che la pubblica opinione ha della corrispondenza tra la correttezza dei loro comportamenti e la linearità delle loro parole.
In questo minuscolo pantheon che parla alla nazione, si inserisce la nomina del cardinale Zuppi, asceso da pochissimo tempo alla porpora di “principe della Chiesa”, come un tempo si diceva, e che ora è stato posto da papa Francesco a capo della conferenza dei vescovi italiani. Il primo discorso pubblico ha riguardato il tema delle violenze clericali, degli abusi sessuali commessi su donne e adolescenti, talvolta bambini, da dannati della fede con l’abito talare. L’annuncio di un report che a novembre darà indicazioni sui casi di violenza e sulla loro diffusione in Italia ha, in parte, scontentato. Mentre altre conferenze episcopali nel mondo hanno preso in esame range temporali molto più ampi, la missione che la Cei si è data è più delimitata nel tempo e questo, si dice, equivale a una sorta di sanatoria per il passato, di occultamento di episodi che si sarebbero comunque dovuti individuare e denunciare.
Difficile dire cosa sarebbe stato meglio fare, la “prudenza” ha certamente orientato le scelte dei vescovi italiani. Tuttavia, in questa inevitabile e comprensibile pulsione onnivora di giustizia che proviene dalle vittime e dai loro congiunti i quali vorrebbero procedere a ritroso per decenni – in Francia si partirà addirittura dal 1945 – per scovare casi e casi, abusi e abusi, violenze e violenze, un punto appare evidente e riguarda tutta la collettività nazionale, in cui la Chiesa svolge un ruolo non certo secondario. Alberto Melloni, su Repubblica di sabato scorso, ha ricordato che «la Chiesa ogni domenica porta a messa due volte i manifestanti di Cofferati contro l’articolo 18» e che questo si traduce in un circuito di responsabilità e di dialogo con una parte rilevante della popolazione italiana. Evocare la ricerca di scempi e delitti, di peccati e rimorsi lontani nel tempo è una sorta di permanente vocazione nazionale; in essa si esprime la radicata incapacità di un popolo nel far di conto con il proprio passato per poi guardare avanti e prepararsi ai tempi nuovi che stanno arrivando. Quand’anche si scovassero parroci e sacerdoti, presbiteri e monsignori responsabili di atrocità lontane e portate nella tomba, non è chiaro cosa cambierebbe realmente nella percezione sociale e religiosa di un fenomeno abietto e per troppo tempo nascosto.
La Chiesa universale è stata scossa nelle fondamenta da quanto venuto alla luce e non è scavando nelle fosse comuni della perversione che una diversa verità potrebbe venire a galla. «La prudenza è la virtù che dispone la ragione pratica a discernere in ogni circostanza il nostro vero bene e a scegliere i mezzi adeguati per compierlo» ricorda Matteo Zuppi, senza confondersi con la timidezza o la paura, né con la doppiezza o la dissimulazione. «Regola e misura» un’endiadi preziosa per tracciare la via di ogni giusta decisione, individuale e collettiva, sotto il segno della responsabilità. Per un paese praticamente in stato di guerra, che pubblicamente esorta alla sconfitta di un nemico mai dichiarato eppure quotidianamente evocato; per un paese che gronda di retorica a ogni commemorazione mescolando senza ritegno vittime e carnefici, le une spesso a braccetto degli altri, «regola e misura» potrebbero suonare come esortazioni prive di senso.
Eppure sono la cifra della responsabilità collettiva, esiste una soglia innanzi alla quale ogni vendetta, ogni giustizia, persino ogni verità si devono fermare per lasciare spazio alla ricostituzione delle relazioni forti che costituiscono una comunità e la tengono insieme. Ammonisce il cardinale Zuppi: «L’uomo senza legami, dissoluto, non è prudente perché è facilmente accecato dalle ricchezze e dal benessere. La prudenza guarda al presente, non è segnata dalla amarezza e dal veleno della disillusione che spegne la gioia e l’entusiasmo e fa perdere la voglia di cambiare».
È vero, chi ha le carni e l’anima lacerate dalla violenza e dall’ingiustizia sanguina e urla il proprio dolore e vorrebbe che il mondo si ergesse a sua difesa. La prudenza della Conferenza episcopale italiana appare, tuttavia, necessaria. È il contrassegno costitutivo di una comunione che dura da oltre duemila anni e che perdona ogni giorno centinaia di persecuzioni in Cina, in Africa, in Medioriente e altrove perché ha lo sguardo rivolto al futuro e si nutre di un passato che non avvelena né accieca. Una buona lezione per quanti sono affaccendati con l’elmetto in mano a difendere l’Occidente dai salotti di casa o stanno con la paletta e il secchiello a proteggere le spiagge in concessione a caccia di voti.
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