Era il “mare della morte”. Ora è diventato il “mare scomparso” dai riflettori mediatici: il Mediterraneo. Ma la guerra in Ucraina non può, non deve, oscurare una tragedia che continua a svolgersi alle porte di casa nostra. Come è avvenuto ieri con l’ennesimo naufragio nelle acque del Mediterraneo, questa volta al largo delle acque della Tunisia, vicino alle coste di Sfax. Secondo quanto riferito dall’Oim, l’Organizzazione internazionale delle migrazioni, sull’imbarcazione partita da Zouara, Libia, c’erano un centinaio di persone, 76 delle quali sarebbero ancora disperse. Il Riformista ne discute con padre Camillo Ripamonti, presidente del Centro Astalli, sede italiana del Servizio dei Gesuiti per i rifugiati.

Da oltre tre mesi, l’attenzione dei media e della comunità internazionale è totalmente concentrata sulla guerra in Ucraina. Intanto, però, nel Mediterraneo si continua a morire e i trafficanti di esseri umani continuano ad arricchirsi.
Questa è una delle contraddizioni che stiamo vivendo in questo momento. Forse ci siamo accorti solo con la guerra in Ucraina che esiste la guerra, che la guerra determina solo distruzione, persone in fuga. Ci siamo accorti di questa realtà, purtroppo, però, facciamo fatica a renderci conto del fatto che questa realtà era già esistente. Come dice Papa Francesco, la guerra in Ucraina è un altro pezzo di quella “guerra mondiale a pezzi” che si sta combattendo ormai nel mondo, che ha diversi teatri di battaglia e che determina un flusso di persone che scappano dai loro Paesi. Scappano dalla guerra, scappano dalle violenze, scappano dalla fame, scappano dalle disuguaglianze, scappano dai disastri ambientali, scappano dalla povertà. E continuano ad arrivare sulle nostre coste. Qualche quotidiano continua a parlare ancora di “invasione”, riferendosi a questo tipo di arrivi. In realtà sappiamo che i numeri sono molto più bassi rispetto a quelli che in questi mesi ci ha abituato la guerra in Ucraina. Noi facciamo fatica a concentrare questo mondo fatto di guerre a pezzi che determinano questo flusso di persone. A ciò si aggiunge una certa retorica che distingue tra “falsi” rifugiati e “veri” rifugiati. Ancora una volta nell’alibi di accogliere alcuni ed escludere altri. Ormai ci siamo abituati a questo tipo di retoriche. Quando c’è stata l’emergenza dei siriani, ad esempio, si parlava di “veri” rifugiati che scappavano dalla guerra mentre tutti gli altri, invece, non erano delle persone che scappavano. Quando poi il numero dei “veri” rifugiati, i siriani, è diventato troppo altro, abbiamo messo in atto delle procedure che li bloccavano in Turchia. Distinguere tra “veri” e “falsi” rifugiati è l’ennesimo alibi per non accettare che il fenomeno delle migrazioni sia, come è, un fenomeno strutturale. E che quello delle migrazioni forzate è molto spesso conseguenza delle disuguaglianze e delle guerre di cui l’Occidente è molto spesso responsabile.

Per restare su questo tema. È corretto affermare che siamo di fronte ad una sorta di gerarchizzazione tra i più indifesi. In altri termini, porte aperte, o quasi, a chi è in fuga dall’Ucraina in guerra, porte e porti sbarrati a tutti gli altri?
C’è un tipo di retorica che sta spingendo in questa direzione. Nel momento in cui a livello europeo si doveva votare sulla possibilità della protezione temporanea per chi fuggiva dalla guerra in Ucraina, in prima battuta si era distinto tra quelli che erano ucraini e quelli che risiedevano in Ucraina ma che non potevano accedere a questo tipo di protezione. In effetti c’è un tentativo di gerarchizzazione, di distinzione all’interno del mondo gli ultimi, tra gli ultimi e i penultimi. Queste spinte retrive si scontrano, ed è l’aspetto confortante in questa tragedia che è la guerra, con quell’atteggiamento di solidarietà che la guerra in Ucraina ha un po’ smosso nell’opinione pubblica. Occorre impegnarsi, ciascuno per quel che può e gli compete, affinché non si cada in questo ennesimo errore di gerarchizzare gli sfollati, perché questo non sarebbe altro che l’ennesima ingiustizia che si aggiunge a quelle che nella loro vita hanno subìto. Tra le persone assistite nelle strutture del Centro Astalli, oltre il 40% sono state vittime di violenza e tortura, molte passate dalla Libia. In questi anni il diritto d’asilo è stato gravemente indebolito da una cultura europea che ha giocato sempre in difesa, mai con il coraggio della pace. Speriamo che la solidarietà di questo periodo nei confronti degli ucraini non sia solo un entusiasmo momentaneo. E di poter ricostruire una Ue più altruista: servono regole che umanizzino.

In questi mesi abbiamo assistito, specie in certi talk show televisivi, ad una sorta di “caccia al pacifista”. Chiunque avanzava dei dubbi, ad esempio sull’invio di armi all’Ucraina, veniva additato al pubblico ludibrio mediatico come un “sodale” dell’aggressore russo. In questa “lista di proscrizione” non c’è finito Papa Francesco ma solo perché non hanno osato spingersi, almeno pubblicamente, fino a lì…
Purtroppo ancora una volta nell’agone mediatico si distinguono tutte le questioni in bianco e nero. Si “tifa”. Ma la guerra non è una partita di calcio. Chi non è da una parte è necessariamente dall’altra. La vita ci abitua, invece, ad una complessità delle questioni. Non è mai tutto bianco e non è mai tutto nero. C’è uno spazio di grigio che in molte questioni emerge con forza e nettezza. Io sono tra quelli che ritiene che l’utilizzo delle armi sia sempre una sconfitta. La lotta contro le armi deve essere fatta. È solo questione di tempo prima di trovarci di fronte ad un’altra guerra, ad altri conflitti nel mondo. È ingiusto e inaccettabile dare del filo-russo a chi si oppone alle armi. In questo momento storico, in cui si sta consumando un conflitto, assumere una posizione “disarmista” è certamente letto in modo scomodo. Papa Francesco ha preso più volte posizione contro la guerra, contro le armi, rimarcando come gli investimenti sulle armi sono non ragionevoli, anche perché sottraggono risorse a investimenti ulteriori che andrebbero fatti in nome della pace, dell’uguaglianza, della crescita nei vari Paesi. Dobbiamo uscire dalla logica dell’emergenza. Gli uomini si sono sempre spostati da una parte all’altra del pianeta. Oggi si stima che nel mondo siano 300 milioni le persone che non vivono nel paese dove sono nate. L’immigrazione è un fenomeno strutturale, e se lo leghiamo alla logica dell’emergenza rischiamo di semplificarlo in maniera eccessiva. Affrontarlo invece nella sua complessità, ci permette di rendere governabile un processo che è così impattante sulla vita di tutti noi.

Per passare a un altro argomento che può sembrare fuori tema ma che, a ben vedere, non è così. Papa Francesco ha scelto , nella triade dei votati, il cardinale Zuppi come nuovo presidente della Conferenza episcopale italiana. Padre Ripamonti, qual è il segno di questa nomina?
È difficile interpretare quello che Papa Francesco ha pensato con questa scelta. Il Centro Astalli ha da tempo dei rapporti di amicizia e di vicinanza con il cardinal Zuppi. Noi lo conosciamo una persona molto dedita agli ultimi, all’incontro con le persone, al dialogo. Certamente è una persona che incarna il desiderio di quella come “ospedale da campo”. La Chiesa che si fa compagna di strada degli ultimi. E tra questi ultimi anche i migranti e i migranti forzati. In questi anni la sua vicinanza, la sua presenza, il suo sostegno, danno conto e risalto di una Chiesa in uscita, una chiesa che vuole essere tra la gente e come direbbe Papa Francesco, un “pastore che ha l’odore delle pecore”. Mi lasci aggiungere che sull’immigrazione dobbiamo abbandonare qualsiasi logica utilitaristica, tenendo sotto controllo le paure che questo fenomeno genera. Non dobbiamo decidere se accogliere o meno una persona in base al fatto se potrà esserci utile o meno. L’accoglienza dovrebbe essere un diritto per tutti. La via per rendere reale l’accoglienza è quella dell’integrazione e l’integrazione è legata a una dimensione progettuale che deve essere per sua natura bi-direzionale. Non dobbiamo fare un piano per i migranti, ma un piano per il lavoro a cui anche i migranti possano accedere. Il tema dell’integrazione è importante per la società del futuro dove vivremo in una cultura sempre più pluralista, nel rispetto reciproco.

La nomina a presidente della Cei di una persona con la sensibilità manifestata, può dare un contributo importante nel battersi contro quella che lei, in un suo recente, bel libro, ha definito la “globalizzazione dell’indifferenza”?
Io credo che come presidente della Cei, il cardinal Zuppi possa aiutare la Chiesa in Italia ad essere ancor più attenta nel contrastare quella che Papa Francesco ha tante volte definito la “cultura dello scarto”, che marginalizza le persone. Per la conoscenza che noi abbiamo del cardinal Zuppi, sappiamo come lui abbia sempre cercato di costruire una cultura non dello scarto ma dell’accoglienza, della vicinanza, dell’incontro. Andando in questa direzione, io credo che possa aiutare la Chiesa in Italia in questo cammino. In questo tempo di sinodo delle Chiese, che ci prepara poi al sinodo del 2023, camminare con la gente, per ascoltare, facendosi compagna di strada in una visione aperta, plurale, inclusiva, è una sfida che da presidente della Cei, il cardinal Zuppi può aiutare a vincere.

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Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.