Finalmente abbiamo la riforma Cartabia, che non è più la riforma Lattanzi, che a sua volta non è mai stata una riforma di struttura del sistema penale. Il risultato finale è il frutto dei compromessi tra le forze politiche, che hanno finito per diluire in maniera quasi omeopatica le migliori novità elaborate degli esperti nominati dal ministro. In questo senso gli emendamenti formulati dal governo alla sua stessa proposta hanno edulcorato quella che era la parte migliore, e se vogliamo anche più coraggiosa, della riforma: cioè l’abbandono di quella impostazione iperpunitiva e carcero centrica che ha contraddistinto la produzione legislativa negli ultimi anni. Una scelta di campo che è stata fortemente attenuata rispetto al lavoro della commissione, rendendo ancor più evidente la contraddizione interna che comunque vi albergava, cioè quella di fare “ponti d’oro” a chi scappa dal processo senza rafforzare le garanzie per chi invece lo affronta.

Contraddizione oggi ancor più evidente di fronte al ridimensionamento dell’armamentario messo in campo: dalla archiviazione meritata ai riti alternativi, dalla tenuità del fatto alla messa alla prova, per finire con la riformulazione del catalogo delle pene. Soluzioni che oggi, dopo il passaggio in Cdm, vengono significativamente ridimensionate e dunque risalta ancor di più che a fronte di un processo che premia chi non lo vuole affrontare, poco o nulla viene offerto a chi invece intende sostenerlo. Per questo motivo, prima ancora di quel che c’era, nella originaria “riforma Cartabia” appariva criticabile quel mancava e che oggi, dopo i compromessi politici di cui sopra, si nota ancor di più. La Commissione Lattanzi, infatti, non era intervenuta su alcuni temi centrali, come la tutela effettiva della presunzione di innocenza, l’ipertrofia della custodia cautelare in carcere, la parossistica circolazione delle prove tra processi diversi, le modalità assolutamente degenerate di assunzione della prova dichiarativa soprattutto nei processi di doppio binario. Per non parlare dell’ipertrofia del sistema della prevenzione e del furore intercettivo che anima la nostra giurisdizione, con lo smodato e sostanzialmente incontrollabile utilizzo di strumenti invasi che attentano non solo al disposto dell’art.15 della Costituzione ma alla stessa essenza di una democrazia che non può e non deve essere “giudiziaria”.

Insomma, dopo che la Lega e i 5 Stelle (i secondi con il sostanziale beneplacito del PD) hanno imposto le sempiterne ragioni degli opposti giustizialismi, l’esito è ben poca cosa – altro che riforma epocale di cui vanno parlando alcuni commentatori – ma in qualche maniera era già scritto. Tenuto conto del fatto, certamente non imputabile né al Ministro né agli esperti dalla stessa nominati, che per motivi essenzialmente politici si era dovuto lavorare sullo schema della così detta riforma Bonafede, quel che è avvenuto appariva scontato. Un’ipoteca di non poco conto che ha finito per strozzare in culla qualsiasi velleità di riforma strutturale e che ha contato, soprattutto, nel momento finale. La pasticciata soluzione di compromesso che ha modificato in zona Cesarini la prescrizione lascia intatta la sua morte dopo la sentenza di primo grado e porterà, assieme all’ansia da prestazione processuale, i magistrati a comprimere i tempi dei dibattimenti soprattutto al momento in cui sarà la difesa ad essere protagonista. Con la ciliegina sulla torta dell’ennesimo “doppio binario”, a proposito di corruzione e reati contro la p.a., che pare una mania dei grillini che sembrano ancora non soddisfatti delle legnate che, al riguardo, hanno già rimediato dalla Consulta.

Il fatto è che, in tema di prescrizione, si è cercata la soluzione negli armadi della politica e non certo nelle biblioteche giuridiche, anche perché, in fondo, la questione è sempre stata solo politica. Del resto, anche a cercarlo col lanternino, un giurista esperto e lontano dalla fascinazione per le Procure disposto ad avallare il processo infinito caro a Bonafede era difficile trovarlo. Anche se era altrettanto difficile imbattersi in qualcuno incline a ragionare, e trovare soluzioni, sui veri tempi morti del processo, che hanno il loro perché nelle disfunzioni amministrative e ben poco a che vedere con le garanzie degli imputati. Il problema era, ed è, che questa vicenda della riforma ha anche incrociato l’agonia politica e la guerra interna del movimento 5Stelle. Per ciò far fare a Bonafede, ed alle sue proposte assurde, la fine che meritavano, sanamente ripartendo da zero per riformare sul serio il sistema penale, sarebbe stata una decisione fuori degli orizzonti del governo delle larghe intese, e soprattutto fuori dalle intenzioni del Pd, che quando si parla di Giustizia dissotterra dai cimiteri di partito le doppie verità tanto care alla sinistra del secolo scorso.

L’ennesima contraddizione, visti fulmini che a suo tempo i democratici avevano invocato su quel ministro. Il problema, al solito, e che i politici “riformatori”, di destra e di sinistra, non hanno le idee chiare, un giorno si svegliano dalle parte dei detenuti di Santa Maria Capua Vetere, e il giorno dopo si spaventano di fronte alla proposta di restituire alla politica, cioè a loro stessi, il potere di indirizzo sull’ azione penale, altra idea della Commissione ridimensionata nel miglio finale. Il fatto è che, anche di fronte ad una delle crisi più profonde dell’Ordine Giudiziario che la storia Repubblicana ricordi, leggi caso Palamara, ovvero di fronte ad episodi come quelli di Milano e di Verbania, che non lasciano scampo agli avversari della separazione delle carriere, la politica italiana rifiuta di scardinare quella concezione proprietaria della Giustizia che anima la magistratura, associata e non, da trenta anni a questa parte. Rifiuta le vere riforme di struttura: cioè la modifica del titolo Quarto della Costituzione. Un assetto nato, giustamente, dalle ceneri del fascismo per tutelare l’indipendenza della magistratura ma inidoneo a fronteggiare l’esondazione del Terzo Potere, che non è fenomeno solo nostro ma di molte democrazie.

Tutti uniti, a parole, nello stigmatizzare lo sproporzionato strapotere di una parte, le Procure, ma assai poco disposti ad incidere sui meccanismi, anche costituzionali, che questa situazione hanno determinato. Finché non ci sarà la consapevolezza della necessità di voltare pagina rispetto a questo squilibrio, anche se si fosse disposti a cambiare tutto non cambierebbe nulla, perché il potere vero resterebbe quello di chi, semplicemente indagando, può determinare la vita o la morta civile di un cittadino. Questa è la realtà della giustizia italiana, quella vera, che si respira nelle aule dei tribunali e ti colpisce come uno schiaffo in faccia leggendo le pagine di una stampa che il potere, quello vero, sa bene che abita nelle Procure e difficilmente le disturba. Ed allora quello che mancava nella politica sulla Giustizia del governo Draghi oggi manca ancora di più.

Tra le tante la decisione, tutta politica e tutta bisognevole di coraggio, di chiarire in modo semplice e netto che se vuoi far ripartire il volano di un motore bloccato devi svuotare il serbatoio e pulire gli ingranaggi: cioè fare una amnistia di quelle epocali, altrimenti prendi in giro te stesso prima degli altri. Oppure, se davvero vuoi impedire che dentro le carceri venga “tradita la Costituzione”, come coraggiosamente ha detto Marta Cartabia, devi fare scelte chiare non nasconderti dietro il cliché delle mele marce, ovvero fare un cadeaux in tema di prescrizione a chi, come il ministro di Giustizia del governo Conte uno e due, porta la responsabilità politica di quella mattanza se non altro per non aver saputo organizzare per tempo l’impatto di una decisione dirompente per un detenuto come quella di impedirgli ogni contatto con l’esterno, cioè con la vita.

La vera risposta politica ai fatti di Santa Maria Capua Vetere non possono essere le lagne buoniste del giorno dopo che hanno invaso i media ma la riesumazione dei lavori della Commissione Giostra, buttati a mare da Bonafede con l’avallo del PD ancora una volta. La politica vera si fa cambiando il corso della storia per migliorare la vita della gente, come ai tempi del divorzio, dell’aborto, dello statuto dei lavoratori, non con gli slogan, e se la politica non lo capisce ben vengano i referendum a farglielo comprendere.