L'editoriale
Riformisti, rischiate: poco riformismo è problema enorme in una nazione che di riforme che osino ha disperato bisogno
Da queste parti ci si augura una bella iniezione di riformismo nella politica italiana, che al momento, vede un’offerta connotata da altissimi livelli di teatrino. Farsi largo in questo Vietnam comunicativo non è facile: ma i riformisti dovranno saperci fare.

L’inverno che ci attende sarà complicato e dirà se e quanto spazio ci sia per il riformismo italiano. Inutile scrivere che io me ne auguro una bella iniezione nella politica italiana, ma vedremo chi e se riuscirà ad alzare il livello dell’offerta politica, al momento connotata da altissimi coefficienti di teatrino.
Nel centrodestra, la premier Giorgia Meloni è attesa da prove impegnative: la finanziaria anzitutto, la trattativa con l’Europa sul Patto di Stabilità ma anche sulla matassa immigrazione, che in queste ore rende Lampedusa una polveriera, con Francia e Germania che chiudono le frontiere al transito dei migranti che, arrivati qui, vogliono andare da loro.
L’Europa dovrebbe mettere fine alla regola dell’unanimità prima, e dimostrarsi utile poi, altrimenti rischia di veder crescere la percezione di una sua inutilità, se non di una vera e propria ostilità, e di veder così crescere il sentimento antieuropeista di chi percepisce l’unione non come opportunità di crescita e sicurezza (che è) ma come fonte di capricci ideologici che rischiano di minare il sempre minor benessere italiano (direttive green su casa e auto, anzitutto).
Ma Meloni non soffre competizione nel centrodestra (la Lega è stabile anche se la pressa sui migranti, Forza Italia non la vede nessuno, se la si nota è da dimenticare, ed è pronta a calarsi le braghe persino sul decreto, grillino e retroattivo, sugli extraprofitti bancari), ne’ tantomeno dall’opposizione.
Dove è ormai cristallizzata la crisi della sinistra, che non sa più leggere la società e la sua traiettoria, e che da più industria e lavoro passa a chiedere più reddito per chi non vuole lavorare, e si accoda alla Cgil che vuole abolire il Jobs Act che lo stesso Pd partorì. Il tutto mentre il ceto medio chiede risposte serie. Il timore è che così non si alzi l’asticella, e che l’ansia da consenso elettorale causi la polarizzazione di toni e proposte attorno a temi marginali, escludendo la nascita di una competizione di alto livello su questioni, e soprattutto rischia di ostracizzare ogni afflato riformista cruciali (toccherà al ‘Centro’, essendo assente Forza Italia, tentare di iniettarlo nel dibattito), schiacciato appunto nella polarizzazione fatta di massimalismi.
Ma poco riformismo è problema enorme in una nazione che di riforme che osino ha disperato bisogno, perché soffre un oggettivo problema demografico con inevitabili riflessi professionali, occupazionali e dunque pensionistici, è afflitta da uno Stato onnipresente e inefficiente che ci blocca e costa un sacco di soldi, comprimendo così la libertà fiscale ed economica di imprese e cittadini, che dovrebbero invece competere nella creazione di benessere con altre nazioni pragmatiche, prive di lacci burocratici, alcune delle quali sono addirittura regimi e in quanto tali drammaticamente efficienti perché prive di contrappesi popolari di cui tenere conto.
Farsi largo in questo Vietnam comunicativo non sarà facile. Per questo i riformisti dovranno saperci fare. Altrimenti il conto da pagare rischia di essere salato. Assai.
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