Tony Blair esordì così prima delle elezioni del 1997 che portarono il New Labour a vincere e ad aprire la gloriosa stagione della Third Way in Europa: “Duri contro il crimine. Duri contro le cause del crimine”. Perché sì, la sicurezza non è solo un fatto di ordine pubblico, e già allora in si iniziò a capire che era necessario battere un selciato nuovo: alternativo al lassismo e buonismo dei giustificatori di mestiere, secondo cui se i crimini vengono commessi è sempre colpa di qualcun altro (del capitale, del governo, dei poteri forti ecc.), ma anche al securitarismo fatto solo di reazione al crimine, senza lo sforzo della prevenzione e comprensione dei fenomeni che provocano criminalità e insicurezza.

Nella nostra società odierna viviamo un oggettivo problema di percezione della sicurezza, che si intreccia ai temi della vita sui social, al malessere economico e alla gestione dell’immigrazione: un mix che, da un lato sottovalutato, dall’altro cavalcato, ha creato i presupposti per una miscela esplosiva di rabbia sociale negli anni della crisi economica iniziata nel 2008 e che ha lasciato scorie terribili di una condizione di insicurezza generalizzata nelle persone. La sicurezza nelle comunità da sempre è fondata su 4 pilastri fondamentali: promiscuità, ovvero accettazione del diverso; giustizia, sensazione che effettivamente chi sbaglia paga; comunicazione, fluidità nelle informazioni e adeguato coinvolgimento e divulgazione di cosa accade in un territorio per sentirsi protetti; capitale sociale, ovvero l’insieme delle risorse, regole, valori etici e morali, a disposizione degli individui per relazionarsi fra loro, capitale che, via via è andato erodendosi. Infatti, valori quali la fiducia nelle istituzioni, il senso civico e la reciprocità, che costituiscono la base su cui il capitale sociale si fonda, sono sempre meno presenti all’interno della nostra società.

Per garantire la stabilità di questi pilastri con i tempi che corrono risulta, agli occhi degli osservatori impegnati sul tema, sempre più preponderante il coinvolgimento dei cittadini per destrutturare l’insicurezza percepita e renderli parte attiva nella costruzione di una sicurezza diffusa attraverso il community policing: far interiorizzare una percezione di controllo sulla sicurezza più agganciato alla realtà e alle effettive dinamiche del proprio territorio. Leggendo la tesi di laurea in scienze criminologiche del mio amico Luca Ulcigrai, ho potuto comprendere al meglio anche il funzionamento concreto di come può delinearsi un modello diffuso e partecipato di sicurezza.

Il community policing è innanzitutto un insieme di strumenti messi in atto in modo sistemico e integrato. Ispirandosi al noto “Bobby” della Gran Bretagna nella prima metà dell’’800, riscopre in ottica moderna la funzione del poliziotto appiedato e disarmato, che frequenta in maniera più assidua le aree urbane anche meno battute ed elimina alcune distanze e barriere erette dai mezzi di pattugliamento moderno, instaurando un rapporto più diretto con chi vive il territorio. Affianco a questo però ovviamente, si inserisce il fondamentale strumento che è già previsto dal nostro ordinamento, della costituzione di associazioni di osservatori volontari, che rispettino rigorosi requisiti, e che fungono da comitato di quartiere che coadiuva le forze dell’ordine nella produzione di sicurezza attraverso il modello denominato SARA, acronimo di: Scanning, Analysis, Response, Assessment.

Quindi innanzitutto il monitoraggio, operato insieme ai membri della comunità con momenti di consulto costanti ai fini dell’individuazione delle problematiche con carattere di attualità o potenzialmente a rischio con la conseguente individuazione degli attori da coinvolgere; successivamente l’analisi svolta dagli operatori della sicurezza per individuare le risposte più adeguate, da poi mettere in campo, e infine la valutazione d’impatto del processo, il tutto seguito da operatori che portino avanti e guidino questa attività di costante scambio fungendo da facilitatori tra i vari attori in gioco.

Purtroppo questo modello rimane molto spesso lettera morta a causa di un retroterra culturale abituato a un modello di sicurezza reattivo, oppure a causa di pregiudizi legati a esperienze del passato poco edificanti e che hanno distorto il concetto di aiuto dei cittadini nel garantire la sicurezza, ma forse sarebbe da un lato l’unico modo di costruire davvero un nuovo rapporto di fiducia tra comunità, individui, istituzioni e forze dell’ordine, e dall’altro capace di fornire uno strumento di approccio integrato socio-securitario per la risoluzione del disagio che ritroviamo nelle nostre città e territori, sempre troppo spesso interessati da problematiche che si intrecciano e che non si possono affrontare solo da un unico punto di vista.

Cercando di essere più decisi nello sconfiggere le ragioni della criminalità, facendo sì che un pezzo di questa risoluzione arrivi dal basso, riusciremo a far sentire più sicure le nostre comunità, facendogli acquisire la consapevolezza di avere in parte il controllo su quello che accade lì dove i propri bambini vanno a scuola o i propri cari passeggiano, avendo istituzioni e Forze dell’Ordine più vicine e capaci di farsi carico in modo più disintermediato delle proprie istanze. Non è facile, ma neanche impossibile, serve solo tanta volontà politica, meno pregiudizi da più parti e investire di più nel personale delle Forze dell’Ordine, che già oggi svolgono un lavoro eccezionale e che forse anche esse si aspettano di ricevere finalmente nuovi e migliori strumenti e sostegni per rinnovare il patto di fiducia e di reciproca e leale collaborazione con i cittadini: elemento fondamentale alla base di una solida democrazia.

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Nato nel 1995, vivo a Trieste, laureato in Cooperazione internazionale. Consulente per le relazioni pubbliche e istituzionali, ho una tessera di partito in tasca da 11 anni. Faccio incontrare le persone e accadere le cose, vorrei lasciare il mondo meglio di come l'ho trovato. Appassionato di democrazia e istituzioni, di viaggi, musica indie e Spagna