Il settimanale liberale Der Spiegel sbatte Marx in prima pagina. La copertina del primo numero del 2023 lo ritrae, sornione, con le braccia ricoperte da tatuaggi, interrogato come dispensatore di lumi attorno alle tante crisi del presente (Polykrise): energetica, commerciale, democratica (per l’insorgenza di populismo e autocrazia) e bellica (per la guerra mondiale incombente).

In effetti, se interpellato, il teorico di Treviri molto avrebbe da dire per risalire alla radice delle contraddizioni del tempo moderno. Il titolo con il quale il foglio tedesco inaugura il nuovo anno è comunque già un programma, chiedendosi se, dinanzi alla lunga e generale crisi del capitalismo, non “avesse ragione” proprio lui. La risposta al dilemma è ricercata in un articolo lunghissimo, di oltre 36 mila caratteri. Il pezzo, firmato da Thomas Schulz, Susanne Beyer e Simon Book, indaga le ragioni oggettive della Marx renaissance. La cosa può risultare sorprendente solo nella smarrita provincia italiana. Qui Marx è chiuso a chiave in soffitta. Nell’accademia sedotta dalla pura compilazione, è dimenticato da almeno quarant’anni. E, nella grande stampa d’opinione, molte firme si sono scandalizzate perché, in una recente riunione del Pd, Gianni Cuperlo ha osato citare una frase del filosofo tedesco.

La ripresa di Marx avviene su più livelli, e non si pesca nel suo inesauribile catalogo solo per rimarcare una qualche affinità politico-ideologica. Colpisce, in particolare, la sfacciataggine del Financial Times,che ha l’impudenza di riciclare un po’ di Marx per invocare un nuovo ordine economico in quanto sarebbe giunto il momento di dare il benservito al neoliberismo. Il settimanale di Amburgo ricorda come persino Ray Dalio, fondatore del più grande hedge fund al mondo, dinanzi alle ripetute crisi e agli squilibri della distribuzione, rilegga Das Kapital preferendolo alle apologie inservibili del Wall Street Journal. Anche tra i vertici della cultura ufficiale le metafore marxiane circolano tranquillamente per denunciare i fondamenti dell’attuale assetto sociale. Der Spiegel sente Minouche Shafik, che dirige la London School of Economics, è anche baronessa e membro della Camera dei Lord britannica, dopo essere stata vicepresidente della Banca mondiale.

Il linguaggio di una crossbencher scettica sulla capacità integrativa dell’odierno modello di sviluppo, e che auspica un “nuovo contratto sociale”, non si discosta, almeno nella parte descrittiva dei fenomeni, da quello delle culture più radicali che riesumano, oltre alle istanze del keynesismo di sinistra, anche categorie più specificamente marxiane. Con le sue sollecitazioni a riscoprire il ruolo di programmatore-gestore dello Stato, M. Mazzucato influenza il lavoro del governo del socialdemocratico Scholz. Nel quadro di una piattaforma neo-keynesiana, orientata al Green New Deal, trova un naturale interlocutore nel ministro federale dell’economia e della protezione climatica Robert Habeck, esponente dei Verdi, alle prese con un tentativo di ristrutturazione dei modelli di politica industriale ispirato a un’economia ad emissioni zero. Il motivo politico congiunturale della rinascita dell’interesse per il marxismo sta nella necessità, per la sinistra tedesca, di ridefinire le categorie politiche utili al governo democratico dell’economia dopo la stagione della deregolamentazione.

L’Spd, in realtà, aveva riabilitato Marx già nel 1989, salvo però condividere l’ubriacatura moderata per il “nuovo centro” avviata da Gerhard Schröder sul finire degli anni ‘90. Oggi si cercano “missioni di innovazione” per gestire un’economia verde che richiede il passaggio dal vecchio Stato, che ex post interviene per correggere i fallimenti del mercato, allo Stato nuovo, che progetta, definisce gli scopi, riformula il fondamento della civile convivenza. In questo spazio di riflessione, matura la ricerca di una radicale svolta (Zeitenwende) per costringere il capitalismo a marciare in direzione di un nuovo ordine economico. Oltre al paradigma keynesiano di sinistra, cresce l’attenzione per il marxismo. Il settimanale tedesco richiama soprattutto le analisi di due figure intellettuali: Kohei Saito, che per rispondere alla crisi ha scagliato la natura contro il capitale (affrancando, a suo dire, Marx dallo Zeitgeist modernista dell’ottimismo tecnologico), ed Eva von Redecker, femminista e marxista che ha ridefinito il linguaggio della liberazione contro il governo privatistico del capitale.

Saito è un giovane filosofo giapponese che si è formato in Germania. La sua tesi di dottorato, Natur gegen Kapital (pubblicata da Campus nel 2016), è stata discussa nel 2015 presso la Humboldt Universität zu Berlin sotto la supervisione di Andreas Arndt, uno dei più interessanti studiosi di Marx. I suoi spunti sono stati poi sistematizzati in un fortunato libro del 2020, molto citato tra gli specialisti. Si tratta di una sorta di manifesto del nuovo ecologismo di ispirazione socialista che, una volta tradotto in Giappone, ha venduto nelle librerie mezzo milione di copie. Saito recupera le istanze di una “critica normativa al capitalismo” che procede attraverso gli scritti di Marx successivi al 1868, solo parzialmente raccolti nel volume IV-18 delle Opere complete, di cui il giovane filosofo è curatore. Si tratta di estratti e note sulla chimica agraria, sulla storia del suolo, che avvicinano il pensatore tedesco alla comprensione dell’esaurimento delle risorse che viene determinandosi a seguito dell’uso intensivo dei fertilizzanti artificiali.

Senza indulgere ad una ontologia negativa, nel lavoro di Saito l’esplorazione della contraddizione natura-capitale accompagna Marx verso una prospettiva ecosocialista. Nella consapevolezza dei limiti del sovraccarico dell’ecosfera, il Marx riletto dal filosofo giapponese assume coerentemente l’ipotesi della de-crescita e supera un modello produttivista dallo spiccato tratto prometeico-antropocentrico. Non meno radicale, ma entro un’ottica critica diversa, appare la riflessione di Eva von Redecker, una filosofa formatasi tra Berlino e Cambridge, “con una predilezione per Marx”. La contestazione del governo del capitale, che esercita un dominio di sesso, di razza e si distingue per la depredazione della natura, saluta la portata innovativa dei movimenti di protesta (da quelli dei neri a quelli femminili che agiscono in nome della “maternità della politica”).

Convinta che “la rivoluzione è interstiziale”, la filosofa affida ai movimenti la ricerca di un Sozialismus per il XXI secolo. Una comunità di condivisione (Gemeinschaft der Teilenden), oltre al ripensamento delle regole, deve contestare il rapporto di proprietà imposto da un “capitalismo che distrugge la vita”, che va combattuto per spalancare la vita oltre la merce, la persona al di là del mercato. Nel suo libro tradotto in inglese (Praxis and Revolution. A Theory of Social Transformation, Columbia University Press, 2021), alla contraddizione reale Redecker preferisce la figura retorica (metalepsis) che dal caos totale porta al recupero di un senso. “Le rivoluzioni sociali possono sfidare non solo il modo in cui siamo governati, ma anche chi siamo, chi possiede cosa, come ci relazioniamo gli uni con gli altri e come riproduciamo la nostra vita materiale”.

La cura, il tempo, l’ecologia, la politica fiscale orientata a scopi diversi reclamano una politica attiva. Spetta ad essa progettare un nuovo ordine, non semplicemente proporsi come una sfera reattiva che avanza solo dopo i fallimenti del mercato, con le sue marginalità ed esclusioni. Nella rinascenza marxiana si notano, dunque, diverse componenti che vanno alla ricerca di una soluzione a quello che Der Spiegel chiama esplicitamente un Klimakiller-Kapitalismus, un capitalismo assassino e rapace che uccide il clima, la società, la democrazia. C’è persino il disincanto del finanziere miliardario che percepisce che il sistema così com’è non funziona più. La globalizzazione senza regole si è arenata e sollecita, anche per un paperone da prime posizioni di Forbes, una politica che sappia governare le contraddizioni del meccanismo inceppato e delineare le forme di un capitalismo sostenibile. Si tratta, peraltro, di riflessioni critiche che nascono nel cuore stesso del capitalismo più avanzato, non tra i perdenti della globalizzazione liberista, e denunciano non solo gli eccessi della finanza speculativa, ma smascherano i costi della crescita illimitata, contrapponendo alla centralità dell’azionista i bisogni della società.

Qualcosa però manca nell’odierna domanda culturale di marxismo emergente in Germania (il settimanale ricorda anche che negli Usa il 49% dei giovani tra i 18 e 29 anni è favorevole all’idea socialista). Tra piste ciclabili, redistribuzione, incentivi e sussidi per le imprese attente ai livelli di emissione, indennità alla nascita, è il lavoro, la libertà di chi produce, a non affiorare nei filosofi nipponici e tedeschi come il soggetto della critica trasformatrice. Eppure in Marx, più che l’enfasi sui limiti dello sviluppo, cova un’istanza di liberazione, di esaltazione delle capacità. Con la sua invocazione di un piano razionale, egli non trascura la capacità del mercato di arrestare la caduta tendenziale del saggio di profitto, e quindi non crede ad una crescita zero (Nullwachstum) come base per le grandi innovazioni.

C’è qualcosa di scivoloso nella via della post-crescita (Post-Wachstum), assunta nel dibattito tedesco come condizione per accompagnare la transizione ecologica (con periodi di contrazione del reddito e dei consumi, con fasi di disoccupazione). La riflessione riportata da Der Spiegel non solo trascura la capacità del mercato di rendere produttiva la crisi, ma, oscurando il soggetto del conflitto, rende friabile il terreno per la ricerca di altri beni (beni pubblici) e dei valori d’uso, sottovalutando il peso della cura della persona, della partecipazione (politica e sociale), della formazione continua e dell’istruzione. Merito indiscutibile del settimanale di Amburgo è quello di aver comunque invitato di nuovo Marx a scendere dalla soffitta. Le sue pagine sono ancora un’indispensabile lente per indagare le contraddizioni del presente.