Quarantatré anni nello stesso corridoio del quarto piano al Palazzo di giustizia di Milano, porta dopo porta, fino all’ultima in fondo, quella dell’ufficio più prestigioso, quando nel 2016 Francesco Greco è diventato procuratore capo. E oggi siamo all’epilogo, con il compimento di settant’anni fra tre giorni e la pensione. Una scadenza in genere non gradita, considerata come una mannaia sul collo da quei magistrati come Piercamillo Davigo affezionati alla professione e anche al ruolo di potere come il suo ultimo al Csm. Per Francesco Greco, che era arrivato giovane e scanzonato e rivoluzionario nel 1979 dopo l’uditorato a Roma, la sua città, potrebbe essere una liberazione. Da una storia che è stata un vero ottovolante: successi, vertigini di potere prima, angosce e pugnalate alle spalle dopo. Persino l’umiliazione di essere indagato dalla Procura di Brescia guidata da un suo ex sostituto. Che lo ha poi archiviato, un gesto amichevole e di pacificazione, pur se evidentemente dovuto.

I sorrisi, le pacche sulle spalle, le ipocrisie si sprecheranno, all’aperitivo che gli è stato organizzato nel “suo” Palazzo che lo ha visto giovane incendiario e lo congeda anziano triste, forse. Sollevato per il distacco, magari. Certo, il fardello è pesante. E per fortuna che Francesco Greco non se ne va da indagato, le mani restano “pulite”. Del Csm, una volta lasciata la toga, può anche infischiarsi. Il bilancio del suo lavoro, che considera positivo senza falsa modestia, l’ha già consegnato in settembre ai lettori del Corriere nelle mani di Milena Gabanelli, un vero testamento politico. Con una pesante amputazione, però, la storia di Mani Pulite, accantonata con noncuranza e straniamento: non è la cosa più importante che ho fatto, ha stabilito.

Se il dottor Greco fosse ancora quello degli anni settanta-ottanta, quello del “gruppo del mercoledi” che sognava di fare la rivoluzione anche attraverso le battaglie sul garantismo e contro la sinistra ufficiale, si potrebbe sperare in un ripensamento. È capitato ad altri suoi ex colleghi come Gherardo Colombo e in parte Tonino Di Pietro. Ma rimarrebbe comunque qualche ombra, come la ferocia con cui si è rivoltato al suo ex mentore Francesco Misiani, addirittura deferendolo al Csm. E poi la teorizzazione di un metodo, che verrà definito “ambrosiano”, quello del potersi tutto concedere. Non sono quisquilie, cavilli, formalismi. Violare costantemente la regola della competenza territoriale, nella presunzione di essere gli unici in grado di incastrare i potenti, non è solo arroganza, è violazione delle regole. Usare la custodia cautelare per strappare confessioni, soprattutto nei confronti di persone che alla vista o anche solo alla prospettiva del carcere avevano gravi crisi psicologiche, è stato violenza e sadismo. Giocare con gli indagati al gatto e il topo –come qualcuno ha fatto- e poi dire, come qualcuno ha detto, che i quarantun suicidi significavano solo che c’erano ancora uomini con il senso dell’onore. Tutto questo non si può cancellare come se la storia di questi quarant’anni fosse solo quella più recente in cui, oltre a tutto, si tende a giustificare più che rivedere, magari anche con gli occhi degli altri. Magari ricordando, quando si parla del processo Eni, che non c’è stato solo un gup che ha rinviato a giudizio, visto che poi c’è stato il dibattimento con tutti i problemi per cui i due pm d’aula sono indagati a Brescia per rifiuto di atti d’ufficio. E poi, visto che Francesco Greco, come sappiamo, in quella procura era presente anche ai tempi dell’inchiesta Enimont, potrebbe fare uno sforzo di memoria per ricordare che quella tra il colosso idrocarburi e la procura di Milano è storia maledetta e anche l’ossessione di qualcuno fin da allora. Potrebbe ricordare la maxitangente e spiegarci il perché di quell’arretramento di Di Pietro davanti al portone di Botteghe Oscure e dei suicidi di Cagliari e Gardini. Potrebbe aiutarci a capire l’ossessione nei confronti della creatura di Mattei, prima di precisare che la sentenza di assoluzione è solo quella di primo grado.

Non si può continuare a dire che la Procura di Milano diretta da Francesco Greco è riuscita a portare a casa molto denaro facendo pagare le tasse ad alcune multinazionali e nello stesso tempo vantarsene sul piano internazionale sollecitando l’Ocse (la lettera dei quindici di cui abbiamo parlato ieri era la conseguenza dell’intervista di Greco al Corriere) a sanzionare l’Italia perché i poteri forti avrebbero preso di mira il suo ufficio. «Questa procura –aveva detto nella famosa intervista testamento politico- ha sempre rappresentato l’indipendenza e la libertà dei magistrati. È questo simbolo che deve essere abbattuto. Io non ho mai visto una campagna mediatica quotidiana così compatta e violenta come quella che è in corso in questi mesi, utilizzando la vicenda Storari e l’assoluzione in primo grado dell’Eni».

Sorvoliamo sulla nemesi che colpisce anche chi fa uso di campagne mediatiche. Ma è difficile continuare a difendere un ufficio dove il capo non è riconosciuto come tale se non da quei pochi che sono stati promossi come aggiunti. Il piano triennale di riorganizzazione del procuratore Greco di due anni fa era stato bocciato, prima ancora che dal Csm, da tutti i sostituti, insofferenti, magari a torto, del giogo che il capo dell’ufficio aveva posto sul loro collo quando li aveva obbligati a consultare l’aggiunto di riferimento prima di assumere iniziative importanti. C’era stata una vera ribellione.

Ma ancora niente rispetto al maremoto dei mesi scorsi, quando 59 su 64 si erano schierati, con una lettera inviata al Csm, con il pm Paolo Storari in seguito alle note vicende dei verbali passati a Davigo. Ma la cosa forse più grave, la manifestazione di una vera insofferenza nei confronti del capo era stata la presa di posizione di ventisette pm rispetto proprio all’investimento fatto da Francesco Greco sul pool per indagare sulla corruzione internazionale. Perché tutto sarebbe stato ricondotto, dicevano in sintesi i ventisette, all’ossessione dell’Eni. Con il sospetto che la creazione nel 2017 di questo dipartimento “Affari internazionali e reati economici transnazionali” affidata all’aggiunto Fabio De Pasquale, titolare dell’inchiesta sulla tangente da 1,1 miliardi e finita con l’assoluzione di tutti gli imputati, fosse legata soprattutto alla speranza di vincere quel processo e incastrare Eni proprio come negli anni novanta. Quanto è costato quel processo inutile e sbagliato?

Forse anche questi conti vanno messi nel bilancio dei cinque anni in cui Greco ha guidato la procura di Milano. Insieme ai risultati positivi, che sono un po’ pochini, come la richiesta di assoluzione di Marco Cappato per il suicidio assistito di DJ Fabo o l’inchiesta sullo sfruttamento dei rider. Poi c’è l’inchiesta “Mensa dei poveri”, con ipotesi di corruzione politica locale, di cui sono però ancora in corso i processi. E se si considera che i dati su quelli per reati contro la pubblica amministrazione ci dicono che finisce con condanne definitive non più di un quarto, questa indagine, nel libro del bilancio tra i risultati positivi non può ancora essere inserita.

Che voto dare a questi quarantatré anni, infine, procuratore Greco, nel giorno del suo saluto al Palazzo di giustizia? Per ora un “non classificato”. Perché mancano le sue risposte su quella terra di mezzo, tra quel ragazzo rivoluzionario che ci piaceva e quello di oggi che è un po’ carnefice ma anche un po’ vittima. Ma sulla terra di mezzo, quella in cui Milano fu definita Tangentopoli, città delle tangenti, e un gruppo di pm, di cui lei era il più giovane, osò definire come “pulite” le proprie mani (e sporche quelle di tutti gli altri), su quello non ha niente da dire?

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Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.