“Triplete” per il procuratore generale di Firenze Marcello Viola: per la terza volta consecutiva, infatti, i giudici amministrativi hanno affermato il suo diritto ad essere nominato procuratore di Roma al posto di Michele Prestipino. Un breve riassunto della vicenda.

Viola aveva presentato ricorso contro la decisione dello scorso anno del Plenum del Consiglio superiore della magistratura (che aveva anche annullato il voto della Commissione per gli incarichi direttivi del maggio del 2019 in suo favore) di nominare Prestipino procuratore della Capitale. Il Tar aveva dato ragione al pg di Firenze. “L’omissione della valutazione di Viola, data dalla revoca della proposta a lui favorevole, appare priva della necessaria motivazione in assenza di elementi oggettivamente riscontrabili a suo carico”. Il Csm aveva “irragionevolmente” cambiato orientamento su Viola dopo la diffusione illegale (su alcuni giornali) del contenuto delle intercettazioni ambientali a carico di Luca Palamara.

Emerge da più di un intervento in Plenum – osservava il Tar – che Viola, in audizione, si era dichiarato ‘parte offesa’ e che, oggettivamente dalla lettura delle intercettazioni emergeva tale qualità di parte offesa rispetto alle ‘macchinazioni o aspirazioni di altri’”. In pratica, l’essere stato ‘scelto’ a sua insaputa, “non poteva condizionare in alcun modo l’orientamento del Csm”.

Prestipino ed il Csm presentavano appello contro questa sentenza che veniva rigettata dal Consiglio di Stato a maggio scorso. La nomina di Prestipino per i giudici di Palazzo Spada era “illegittima”. Oltre all’esclusione “immotivata”, il Csm non aveva effettuato una corretta valutazione e comparazione dei titoli, valorizzando oltre misura le funzioni di aggiunto svolte da Prestipino, senza prendere “in adeguata considerazione” lo svolgimento, da parte di Viola, “per ben tre anni, della funzione direttiva di secondo grado di procuratore generale presso una delle principali Corti d’Appello italiane”. Il Consiglio di Stato sottolineava anche che il Csm aveva ritenuto prevalente l’esperienza di Prestipino in materia di criminalità organizzata, senza tenere adeguatamente conto delle esperienze di Viola quale procuratore della Repubblica di Trapani, “un territorio con una radicata presenza di complesse strutture criminali di tipo mafioso”.

Forte di questa sentenza Viola, difeso dagli avvocati Girolamo Rubino e Giuseppe Impiduglia, invitava il Csm a “riattivare” il procedimento per la nomina del procuratore di Roma, sottoponendo al Plenum la proposta originariamente formulata dalla Quinta commissione a maggio del 2019. Prestipino, assistito dal professore Massimo Luciani, decideva quindi di presentare un ricorso “straordinario” per Cassazione e un ricorso per “revocazione” al Consiglio di Stato. Per il magistrato i giudici amministrativi avevano invaso le competenze del Csm in tema di nomine. In tale ottica depositva una istanza cautelare per sospendere l’esecuzione delle sentenze favorevoli a Viola. Il Consiglio di Stato ieri ha rigettato, non essendoci alcun motivo per “giustificare la sospensione delle sentenze”.

A questo punto il Csm ha esaurito gli alibi e deve per forza provvedere ad una rapida riattivazione del procedimento per il procuratore di Roma. In mancanza di spontanea esecuzione da parte di Palazzo dei Marescialli, Viola starebbe valutando l’ipotesi di presentare un ricorso per ottemperanza e ottenere la nomina di un commissario che sblocchi l’inerzia del Csm. Per capire come sia stato possibile, però, che il Csm abbia avallato una nomina “illogica” è necessario tornare a quel 23 maggio del 2019 quando Viola era risultato il candidato più votato dalla Quinta commissione del Csm, con quattro voti, fra cui quello di Piercamillo Davigo, rispetto al voto singolo andato agli altri due candidati, Francesco Lo Voi e Giuseppe Creazzo. La decisione mise subito in agitazione i giornali delle Procure e i poteri forti della Capitale.

L’arrivo di Viola farebbe infatti saltare il “metodo” Pignatone, condiviso dal fedelissimo Prestipino. La “discontinuità” tanto temuta. Il 29 maggio successivo con tre articoli identici sul Corriere, Repubblica e Messaggero, vengolo pubblicate le intercettazioni di Palamara, indagato dalla Procura di Perugia per corruzione, relative a dei suoi colloqui effettuati la sera dell’8 maggio con cinque togati del Csm e i deputati Cosimo Ferri e Luca Lotti all’hotel Champagne di Roma.

La clamorosa fuga di notizie, su cui nessuno ha mai indagato, ebbe due conseguenze: il cambio di maggioranza al Csm con le dimissioni dei togati che avevano partecipato alla cena e, appunto,
l’annullamento della votazione del 23 maggio.Relatore fu il togato di Unicost Marco Mancinetti, avversario di Palamara, a sua volta costretto alle dimissioni. La campagna stampa costrinse alle dimissioni i cinque consiglieri che avevano partecipato a quell’incontro, determinando un cambio di maggioranza al Csm.

Il capo dello Stato, fra le polemiche, decise di non sciogliere il Csm. Al Csm vide allora la luce l’alleanza fra le toghe della sinistra giudiziaria e i davighiani. Il primo banco di prova fu quello di valorizzare l’esperienza di Prestipino ed il suo “radicamento” sul territorio per farlo diventare procuratore di Roma.