La Congregazione per la Dottrina della Fede fa il suo mestiere: emana documenti vincolanti dove ribadisce cosa i cattolici possono o non possono fare. Come è accaduto martedì con la Lettera “Samaritanus Bonus”, in cui in sostanza ribadisce diversi divieti: no all’eutanasia, niente sacramenti e via l’assistenza spirituale nel momento letale finale (si tratti di eutanasia o suicidio assistito). Certo si riconosce che dietro tali scelte c’è una “disperazione” esistenziale che deriva da condizioni di dolore fisico o sofferenza psichica. Ma la condanna è netta, compresi i legislatori: «L’eutanasia è un atto omicida che nessun fine può legittimare e che non tollera alcuna forma di complicità o collaborazione, attiva o passiva. Coloro che approvano leggi sull’eutanasia e il suicidio assistito si rendono, pertanto, complici del grave peccato che altri eseguiranno. Costoro sono altresì colpevoli di scandalo perché tali leggi contribuiscono a deformare la coscienza, anche dei fedeli».

La Congregazione fa il suo mestiere. Ma lo fa bene? Possiamo discuterne a partire dal titolo della Lettera: “Samaritanus Bonus”. Veramente nel Vangelo di Luca (10, 29-37) si parla di un “Samaritano”, cioè un uomo proveniente da una regione nota per essere abitata da idolatri. La scelta di una figura positiva è un modo che usa Gesù per invitare ad andare oltre le apparenze e le facili etichette. E fin qui tutto chiaro. Resta da dire che “buon” non c’è nel Vangelo; l’aggettivo è un’aggiunta posteriore, una connotazione morale della retorica che guarda alla forma e dimentica la sostanza. Come nel caso di questa Lettera. La retorica usata ci dice che la Chiesa è compassionevole, aiuta, sta vicino, è misericordiosa. Però il sacerdote esce dalla stanza dove si praticherà eutanasia o suicidio assistito perché altrimenti sarebbe colpevole di “collaborazionismo”. E i funerali in chiesa vanno negati (ci ricorda qualcosa?) sempre.

Non sembra molto compassionevole. Poi troviamo alcune affermazioni da rimarcare: «In alcuni Paesi del mondo, decine di migliaia di persone sono già morte per eutanasia, molte delle quali perché lamentavano sofferenze psicologiche o depressione. E frequenti sono gli abusi denunciati dagli stessi medici per la soppressione della vita di persone che mai avrebbero desiderato per sé l’applicazione dell’eutanasia. La domanda di morte, infatti, in molti casi è un sintomo stesso della malattia, aggravato dall’isolamento e dallo sconforto. La Chiesa vede in queste difficoltà un’occasione per la purificazione spirituale, che approfondisce la speranza, affinché divenga veramente teologale, focalizzata in Dio, e solo in Dio». Sarebbero state utili la statistica e la metodologia (discipline si sa, molto scomode…) perché “decine di migliaia” non significa niente e se non c’è una fonte affidabile cui appoggiarsi e citare, allora è solo una frase ad effetto. Conta niente – direbbe Giovanni XXIII (ricordate il “discorso alla luna”? «… La mia persona conta niente, è un fratello che parla a voi…»).

Bontà della Congregazione riconoscere la presenza di sofferenze psicologiche e depressione, aggravate da isolamento e sconforto. E che fare? Invece di utilizzare gli strumenti della psicologia (del profondo, relazionale, clinica), si fa prima a consigliare la criptica strada della “purificazione spirituale”. In realtà la lettura del testo solleva diverse questioni importanti.

Primo: il linguaggio è normativo, cioè assolutamente non misericordioso.

Secondo: che deve fare lo Stato? Si stigmatizzano le legislazioni che aprono alla possibilità di praticare eutanasia e/o suicidio assistito. Si dimentica che lo Stato legifera per credenti e non credenti perché grazie al cielo l’Occidente non è un insieme di ordinamenti confessionali (non più da secoli…). Lo riconosce addirittura il Concilio Vaticano II: «Le modalità concrete con le quali la comunità politica organizza le proprie strutture e l’equilibrio dei pubblici poteri possono variare, secondo l’indole dei diversi popoli e il cammino della storia; ma sempre devono mirare alla formazione di un uomo educato, pacifico e benevolo verso tutti, per il vantaggio di tutta la famiglia umana» (Gaudium et Spes, par. 74).

Si dimentica quanti pochi siano i casi in questione (visto che “decine di migliaia” non ha una fonte) dove la legge interviene in maniera rigorosa per definire e circoscrivere le situazioni. L’applicazione è all’interno di limitazioni, controlli, protocolli, dopo aver esperito tutte le strade possibili per evitare di farne ricorso. Certo è una questione che sfugge ai più: i casi di cronaca diventano eclatanti e fanno rumore. Ma si tratta di situazioni estremamente particolari. Certamente abusi possono sempre essere possibili però appunto la legislazione cerca di evitarli ed i protocolli medico-sanitari e le direttive delle associazioni professionali hanno lo scopo di arginare le deviazioni. Dimenticarlo, come fa il documento vaticano, vuol dire “cavalcare” un’ondata di protesta ideologica: formalmente invoca il rispetto della vita (ma solo qui e contro l’aborto, poi si muore sparati a migliaia e va bene!) e manca clamorosamente il doveroso dialogo con scienziati e laici. Che avrebbe evitato di confondere la sedazione palliativa profonda con la «terapia analgesica che usa farmaci che possono causare la soppressione della coscienza». Ignoranza, è il caso di dirlo e tutto l’impianto crolla un bel po’.

Nel documento vaticano non si parla dei Comitati di bioetica, che sono nati proprio per dirimere le questioni controverse e le situazioni più difficili. Proprio lo sviluppo della medicina e delle tecnologie hanno portato all’allungamento della durata della vita e alla nascita di molte questioni: rianimare e tenere in vita oggi è possibile molto più di trenta o quaranta anni fa. Ma dopo? Chi si occupa di questi pazienti? E quale è la loro “qualità” della vita? E se non hanno lasciato direttive anticipate, ognuno può trasformarsi in un campo di battaglia tra opposte visioni. Lo abbiamo visto nei casi Englaro, Lambert e pochi altri. Pochi, appunto; hanno diviso la società e non hanno fatto bene ad un sereno dibattito. Altri aspetti problematici del documento vaticano? Collegare le Cure Palliative alla “assistenza medica alla morte” è un grave errore. Accade nel Nord-America (Canada, Usa) in alcune situazioni ma i protocolli internazionali e la definizione internazionale di Cure Palliative non lasciano spazio ad equivoci.

Abbiamo di fronte un documento “occidentale” che si riferisce a quanto accade nei paesi del nord benestante del mondo dove tutto si tiene e giustifica in nome della “qualità della vita” in versione individuale. La Lettera lo dice così: «La vita viene considerata degna solo se ha un livello accettabile di qualità, secondo il giudizio del soggetto stesso o di terzi, in ordine alla presenza-assenza di determinate funzioni psichiche o fisiche, o spesso identificata anche con la sola presenza di un disagio psicologico. Secondo questo approccio, quando la qualità della vita appare povera, essa non merita di essere proseguita. Così, però, non si riconosce più che la vita umana ha un valore in se stessa». E allora in nome di questa impostazione, nei paesi poveri cosa dovrebbe accadere? Eutanasia a go-go? Ma no, si tace del tutto sulla disparità terribile sull’accesso alle cure, il che vanifica l’intento del documento stesso: non posso difendere la dignità della vita umana se ho in mente solo un pezzo di mondo, largamente minoritario.

Ed eccomi alla tematica di fondo. Siamo sicuri che la visione teologica della Lettera sia l’unica possibile? Il dilemma è serio. Tommaso D’Aquino sottolineava che la legge non è una causa, ma una guida per l’azione di esseri consapevoli e responsabili. Le ragioni per agire (la presenza di Dio, cosa dice la Chiesa ecc.) devono essere introiettate per governare le nostre azioni. L’interiorizzazione porta alla valorizzazione della coscienza personale. E la radice della libertà si trova nella ragione che l’uomo possiede. Ed allora se una persona ha ponderato una scelta, ha effettuato una valutazione di sé, della qualità della vita, delle sue condizioni e possibilità, valutando il futuro che lo attende; e se sa che la scelta da attuare – anche terminare in anticipo la propria esistenza – non danneggia altri, rispetta la coscienza del prossimo (cfr. Catechismo, par. 1789), allora dove sarebbe il problema? Il documento su questo tace. Non ammette che un’altra via è possibile, in situazioni particolari e limitate. Non lo dice perché considera la sofferenza un valore in se stesso, mentre non lo è. La sofferenza, per la Chiesa, è sempre una prova che viene da Dio. Prima la Chiesa cattolica abbandonerà ideologie masochiste, meglio sarà per un dibattito davvero libero da preconcetti e precondizionamenti, speculando nel frattempo sulle condizioni di vita di tanti, pretendendo di dire loro cosa devono o non devono fare. E intanto soffrire.