La notizia della scarcerazione è stata quasi un regalo di compleanno. Un regalo per l’85esimo compleanno, a voler essere precisi. Già, perché nella giustizia italiana ormai allo sbando capita anche di incontrare detenuti ultra80enni. Era il caso di Giovanni C., nato il 12 ottobre 1936 e sbattuto in una cella di Poggioreale il 23 agosto scorso. Numeri che facevano di lui il detenuto più anziano d’Italia, più di quel Giovanni Marandino scomparso due giorni fa alla veneranda età di 84 anni, e che ripropongono più di un dilemma. Il primo: qual è il confine tra esigenze di giustizia e diritto alla salute? E quando la detenzione degenera in tortura?

La storia di Giovanni aveva destato scalpore quando, ad agosto scorso, il giudice lo aveva spedito a Poggioreale sulla base delle accuse della moglie. La donna aveva riferito ai carabinieri di essere stata minacciata da Giovanni che avrebbe pure dormito con un paio di forbici sotto il cuscino. Tanto era bastato per far parlare di maltrattamenti e far scattare la custodia cautelare. Già di per sé singolare, la circostanza aveva richiamato l’attenzione del garante regionale dei detenuti Samuele Ciambriello alla luce delle pessime condizioni di salute di Giovanni. Oltre a essere prossimo ai 90 anni, infatti, l’uomo è affetto da «decadimento cognitivo-globale a evoluzione cronica» per il quale i medici hanno escluso qualsiasi margine di miglioramento. Sono state necessarie la mobilitazione del garante dei detenuti e quella dell’avvocato Maria Elena Riccardi per far sì che il gip disponesse finalmente la liberazione di Giovanni che ora si trova in una casa di cura per anziani.

La decisione del magistrato, però, non cancella la necessità di una riflessione su alcuni aspetti della detenzione. Se l’obiettivo del carcere, articolo 27 della Costituzione alla mano, è quello di rieducare e di reinserire il detenuto nel tessuto sociale, resta un mistero come possa essere rieducato o reinserito un uomo molto anziano e incapace di intendere e di volere. Detto ciò, non si può non denunciare il dramma di cui sono protagonisti i detenuti affetti da problemi psichici più o meno gravi. Le carceri italiane, a cominciare da quelle campane, non sono attrezzate per garantire adeguata assistenza a chi vive il disagio mentale. E Poggioreale, il penitenziario dove fino a poche ore fa era rinchiuso anche Giovanni, ne è la dimostrazione: nel 2020 ha ospitato 170 detenuti coinvolti in percorsi psicologici e altri 168 che prima della detenzione erano in cura presso centri di igiene mentale, eppure il suo organico conta appena 12 psicologi.

E poi c’è il tema dell’abuso della custodia cautelare: basti pensare che, sugli oltre 6.500 detenuti presenti in Campania al 30 settembre scorso, circa il 42% è in attesa di sentenza. Ed è proprio su questo aspetto che si concentra Samuele Ciambriello: «La magistratura ricorre troppo spesso alla custodia cautelare – osserva il garante – Spesso addirittura in assenza delle esigenze cautelari. Persone come Giovanni non possono finire in carcere». Stessa sorte era toccata all’ex membro della Nco Marandino, costretto in cella nonostante fosse ridotto a una larva e morto due giorni fa: un caso che forse è servito come lezione a qualche magistrato. Almeno si spera.