Che cos’è successo dopo la sfilza di assoluzioni registrate nelle ultime settimane in favore di politici, amministratori e uomini d’industria fatti fuori dalla giustizia ingiusta? È successo che gli ex colleghi (ma alcuni, mica tutti) hanno elogiato la capacità di sopportazione dimostrata da quelle vittime della violenza di Stato, mentre i giornali (ma ancora una volta soltanto alcuni) si sono limitati a incolonnare qualche considerazione di pietà solidaristica per questa gente che non meritava il colpo di sfiga di un processo campato per aria.

È il trattamento di simpatia e compassione che si dimostra alla persona colpita dall’ingiustizia di una brutta malattia: si allargano le braccia quando arriva la diagnosi, dunque si resta in trepidazione e poi, quando infine quello la scampa, baci e abbracci e il riconoscimento del vigore che il poveretto ha saputo opporre all’aggressione della patologia. Il guaio è che l’ingiustizia di anni o decenni, redenta da un’assoluzione che non restituisce la vita perduta e non ripristina la reputazione distrutta, appartiene a un altro rango: non è il coccolone arrivato chissà perché, è invece l’effetto di un dispositivo di potere lasciato libero di schiacciare la vita delle persone senza che in qualunque modo ne rispondano coloro che lo amministrano.

È insopportabile che la classe politica – perlopiù proprio quella che durante il “calvario” dei finalmente assolti girava la testa dall’altra parte – rivolga i sensi della propria partecipazione al contegno delle vittime anziché denunciare i fatti che le hanno rese tali: e i fatti sono i processi intrinsecamente ingiusti che hanno inchiodato per anni gli imputati a ipotesi accusatorie evidentemente infondate. Perché un’assoluzione dopo sette, dopo quindici, dopo trent’anni non è la giustizia che infine si compie: è l’ingiustizia che si ferma troppo tardi, quando ormai il danno è fatto.

Nemmeno davanti a questa lugubre rassegna di vite e carriere giustiziate si sente non dico l’impellenza di interrompere lo scempio, ma anche solo un vago stimolo civile a denunciarne le cause evidenti. E, alle solite, ciò avviene in forza della più micidiale caratteristica che purtroppo accomuna il grosso delle classe dirigenti di questo Paese, cioè a dire una irrimediabile confusione tra la necessità di salvaguardare lo Stato di diritto e la opportunità, cioè la convenienza, di assolvere le aberrazioni del potere giudiziario.

Da qui, da questa confusione, promanano i luoghi comuni del corso giustizialista: che “le sentenze non si commentano”, come se si trattasse di esternazioni oracolari; che “bisogna avere fiducia nella magistratura”, come se la giustizia fosse rispettabile per il lustro di chi la sbriga anziché per quel che dice; che “la giustizia deve fare il suo corso”, come se andasse bene il corso accelerato della prigione prima del processo o, appunto, quello pluridecennale che riconosce infine l’innocenza di una vita massacrata. Le pagine dell’ingiustizia italiana recano in calce nomi e cognomi degli esecutori. Nessuno ha il diritto di metterli alla berlina. Ma tutti avrebbero il dovere di ricordare che la loro ingiustizia è stata fatta in nome del popolo italiano. E le loro vittime sarebbero meglio tutelate in questo modo, piuttosto che con l’ipocrisia della solidarietà tardiva.