Nelle ultime settimane c’è stata una pioggia di sentenze assolutorie: personaggi cosiddetti eccellenti hanno visto infine dichiarata la loro estraneità ai fatti che, secondo l’accusa pubblica, avrebbero denunciato la loro responsabilità. Si è trattato spesso di tribolazioni durate anni: sette anni, quindici anni, trent’anni… Ma questo perché? Perché era difficile raccogliere le prove? Perché era complicato istruire i processi? Perché eserciti di garantisti pelosi disseminavano di ostacoli il corso della giustizia? No.

In molti casi l’irrevocabilità di quelle assoluzioni tardava a venire perché l’accusa pubblica, già responsabile di aver accusato senza fondamento, si incaparbiva nel suo intento persecutorio impugnando i provvedimenti favorevoli all’imputato. E infatti sono stati questi i titoli di giornale a descrizione e dell’esito: “La Cassazione conferma l’estraneità…”, “Riaffermata l’innocenza…”, e simili. Vuol dire che all’ultimo grado di giudizio non si è arrivati per il ricorso del colpevole che tentava di farla franca, ma per la pervicacia punitiva dell’accusa pubblica che non si arrendeva davanti agli accertamenti di giustizia del giudice di merito.

È ben strano che il diritto di confidare nella valutazione di un giudice superiore sia trattato come un espediente da mascalzoni quando a ricorrervi è la vittima di una condanna, mentre rappresenta una sacrosanta affermazione di giustizia quando l’impugnazione è fatta dal candore togato del pubblico ministero. Ed è anche più strano considerando il ruolo che l’accusa pubblica rivendica a sé nell’amministrazione della giustizia, vale a dire il ruolo di contribuzione giurisdizionale che obbliga a tenere conto degli elementi di prova a favore dell’imputato e anzi persino a ricercarne. Un compito di portata più che altro teorica nel sistema della giustizia militante che non riconosce innocenti ma solo colpevoli ancor da scoprire.

Di fatto, il cittadino che nei giorni scorsi abbia appreso di quelle definitive riabilitazioni e dei massacri umani che le hanno precedute, sappia che una simile giustizia, che interviene così tardi a denunciare di essersi esercitata malamente per così tanto tempo, è l’effetto dell’impuntatura inquirente che resiste, resiste, resiste pur quando è evidente l’inconsistenza dell’accusa, e quindi impugna e ricorre perché vuole carcere, carcere, carcere anche se vi si rinchiude l’innocenza. Perché quello, il carcere, è la loro vittoria e l’altra, l’innocenza, è la loro sconfitta.