Caro Direttore,
due Tribunali di Sorveglianza, quello di Sassari e quello di Milano, hanno rigettato l’istanza di differimento della pena nella forma della detenzione domiciliare, presentata dai legali di Alfredo Cospito. Secondo i giudici il detenuto anarchico è perfettamente monitorato in ospedale e – questo è un punto essenziale – “la strumentalità della condotta che ha dato corso alle patologie oggi presenti è assolutamente certa”. Queste parole sorprendono perché sembrano prese in prestito dal linguaggio politico più ordinario e presentate surrettiziamente come argomenti giuridici.

Lo sciopero della fame è, per definizione, una condotta strumentale al raggiungimento di un obiettivo. Nel caso di chi si trova ristretto in carcere è praticamente l’unico mezzo, non violento, per ottenere il miglioramento delle condizioni detentive. D’altra parte, come ha scritto Gianfranco Pellegrino sul Domani, se la tesi di quei giudici venisse assunta come orientamento generale, “ne deriverebbe che un cittadino che si espone volontariamente a pericoli (per esempio, un cittadino che si espone al contagio di un virus) non merita le cure dello Stato”. “E – continua Pellegrino – ne deriverebbe pure che un cittadino che, impegnato per esempio in una dimostrazione per ideali politici, si procuri danni fisici, non dovrebbe essere curato, perché l’azione che ha portato alla sua condizione era volta a ottenere fini politici”.

In ogni caso, lo sciopero di Cospito ha conseguito una serie di obiettivi: A) per la prima volta in Italia si è discusso sul regime di 41 bis in una forma meno superficiale di quanto mai sia stato fatto prima; B) per molti mesi sulle prime pagine dei quotidiani le condizioni di un detenuto sono state oggetto di dibattito, di analisi critiche e di aspettative fiduciose; C) la politica si è dovuta confrontare con quanto avviene al di là del muro di cinta, nel luogo di chi vive il sottosuolo e che, in genere, viene dimenticato. D’altra parte, questi sono gli obiettivi “collaterali” di un’azione che aveva al centro il superamento del 41 bis. Una battaglia individuale perché personale è la pena cui Cospito è sottoposto, ma dalla valenza dichiaratamente generale. È possibile che gli stessi legali non nutrissero grandi speranze rispetto alla decisione sul differimento pena ma, come è stato ricordato anche su questo giornale, l’istanza era necessaria al fine di poter procedere presso gli organismi internazionali.

Ora, quante possibilità ci sono che l’Europa intervenga? Non lo sappiamo, ma abbiamo fiducia che gli autorevoli pareri espressi da organismi come la Direzione Nazionale Antimafia e Antiterrorismo e la Procura Generale presso la Cassazione siano riconosciuti e accolti. Entrambi hanno sostenuto che, ai fini della sicurezza, non sia indispensabile perpetuare il regime di 41 bis a carico di Cospito; e che un regime di minor rigore basterebbe a garantire le finalità affidate oggi alla detenzione in 41 bis. Queste e altre considerazioni, unitamente alla tradizionale giurisprudenza della CEDU in materia di condizioni detentive, induce in noi qualche speranza. Carmelo Musumeci, ex ergastolano, oggi scrittore, ha pubblicato una riflessione in cui spiega perché non ha voluto sottoscrivere l’appello che è girato in questi giorni per chiedere a Cospito di interrompere lo sciopero. “Ho pensato – scrive Musumeci – che non ho nessun diritto di chiedere ad Alfredo Cospito di smettere lo sciopero della fame, perché lui sta morendo per continuare a vivere, perché ama così tanto la vita che non la vuole vedere appassire fra le mura di un carcere”.

Anche noi, in questi mesi, abbiamo riflettuto sull’opportunità di rivolgerci direttamente a Cospito, di chiedergli di interrompere questa dolorosa agonia. Oggi ci troviamo al 29 marzo, con un’opinione pubblica stanca, un trafiletto sul giornale, un Ministro della Giustizia silente e un uomo arrivato a 159 giorni di sciopero della fame, con danni probabilmente irreversibili. Più che un appello a Cospito, dunque, il nostro è un richiamo a tutti gli uomini e a tutte le donne di buona volontà. Se hanno qualcosa da dire la dicano: se hanno qualcosa da fare la facciano.

Luigi Manconi, Marica Fantauzzi

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