Bisogna leggerle fino in fondo le 758 pagine che Gianfranco Spadaccia dedica alla parabola politica del partito con la Rosa nel Pugno (Il Partito Radicale. Sessanta anni di lotte tra memoria e storia, Sellerio, 2021). Una lettura, peraltro, di agevole fruizione: perché la penna è quella del giornalista che conosce il mestiere e sa mettere in ordine i fatti, anteponendo la cronaca al commento. Così, attraverso l’acribiosa ricostruzione della «lunga marcia dei radicali» (Stefano Folli, Robinson, 18 dicembre), ciò che scorre sulle pagine è anche il racconto di un’«altra Italia possibile» (Marcello Sorgi, La Stampa, 10 novembre) e delle ragioni che l’hanno resa impossibile.

Quella di Spadaccia, però, è anche la penna del protagonista che «attraverso il filtro della memoria» offre al lettore chiavi interpretative (originali, spesso critiche, mai agiografiche) di una vicenda politica quasi integralmente sovrapponibile alla propria vita. È il valore aggiunto del libro, altrimenti solo storiografico. Quanto al ruolo dell’Autore valgono, alla lettera, le riflessioni sulla condizione del “vice” svolte da un compagno di strada dei radicali (Adriano Sofri, Reagì Mauro Rostagno sorridendo, Sellerio 2014, 22-23): tanto Pannella è stato indiscutibilmente il leader radicale, quanto Spadaccia ha coltivato «l’aspirazione a non primeggiare». Sempre presente e spesso in ruoli di responsabilità, ha preferito per sé un secondo posto che non è sinonimo di mediazione perché Spadaccia, da radicale, «non è uomo da vie di mezzo». La sua è stata una «predilezione per la medaglia d’argento», nella consapevolezza che «essere il primo riduce drammaticamente la libertà» alla quale, invece, Spadaccia non ha mai inteso rinunciare, fino a interrompere il cammino comune con un partito che pure aveva contribuito a fondare nel lontano 1955.

Si può dire con un ossimoro: nella storia radicale, la sua è stata una centralità laterale, condizione condivisa con altri dirigenti storici della Rosa nel Pugno, dei quali il volume restituisce vividamente le opere e i giorni. Così come, dalle sue pagine, emerge a tratti un Marco Pannella che non ti aspetti, la cui vita ha conosciuto tornanti difficili, rivelatori della «fragilità che si poteva nascondere dietro tanta apparente forza e sicurezza». Il solo modo per rispettare un libro è usarlo. In questo caso, suggerisco di farlo con quelle pagine che aiutano a comprendere molte intuizioni radicali, da riscoprire e reinterpretare perché di permanente attualità. In ciò il volume di Spadaccia è come una preziosa cassetta degli attrezzi da cui estrarre strumenti per il rinnovamento della politica, ora come allora.

Vale, innanzitutto, per la forma che il Partito Radicale sceglie di darsi fin dal 1966, attraverso uno statuto concepito come «carta teorica di organizzazione». Ispirato all’esperienza politico-universitaria dell’U.N.U.R.I. e del Labour britannico, traduce in regole interne una concezione democratica, libertaria e partecipativa dell’associazionismo politico totalmente sconosciuta in Italia, ponendo l’accento sulla sua natura federativa, sull’autofinanziamento, sulla pubblicità dei bilanci, sull’autonomia delle proprie articolazioni (regionali, di scopo, parlamentari). Un partito a cui chiunque può aderire e dal quale nessuno può essere espulso, che per questo non conosce probiviri né delegati perché sono gli iscritti, attraverso la loro partecipazione diretta e volontaria, ad eleggere in congresso i suoi organi esecutivi: segretario, tesoriere, consiglio federativo.

Abissale è la distanza dalle regole e dalle prassi degli attuali partiti. Il confronto politico interno e le relative deliberazioni vincolanti per gli organi statutari sono assunte dal congresso, annuale e convocato a data fissa. È possibile la doppia tessera, perché l’adesione richiesta è su specifiche battaglie di scopo, non per appartenenza ideologica. È garantita l’autonomia del gruppo parlamentare, in attuazione dell’art. 67 della Costituzione che vieta il vincolo di mandato e nel rispetto di un’altrettanto costituzionale divisione di ruoli: agli eletti le scelte circa la politica di governo, al partito le scelte relative alla politica nazionale. Si trattava di una forma-partito alternativa ai due modelli a lungo dominanti: il centralismo democratico del PCI; l’articolazione della DC in correnti tra loro in competizione per il controllo del partito. Un’organizzazione statutaria testardamente proposta alle forze laiche come all’intera sinistra, politica e sindacale. Inutilmente.

Questo «disordinare il partito nella prassi, negli strumenti e negli statuti» – come recitava la mozione congressuale del 1976 – era strumentale a un’altra novità: fare politica attraverso single-issues su cui acquisire consenso trasversale, affidate a realtà associative federate al partito. Da qui la costellazione di acronimi, ad indicare i soggetti radicali impegnati nelle battaglie di scopo spesso imposte all’agenda politica e parlamentare: la lotta per il divorzio (LID), per la liberazione delle donne (MLD), per l’obiezione di coscienza alla leva (LOC), per l’abrogazione del Concordato (LIAC), per la legalizzazione dell’aborto (CISA), per la liberazione omosessuale (FUORI), per l’antiproibizionismo sulle droghe (CORA), per la Costituente democratica (ARCOD), per la libertà linguistica attraverso l’esperanto (ERA), contro la pena di morte nel mondo (NTC), per la promozione dei diritti umani e della democrazia attraverso la giustizia internazionale (NPWJ), per la libertà di ricerca scientifica e per le scelte di fine vita (ALC).

Obiettivi diversi, strategia comune: rompere il silenzio e la solitudine di condizioni soggettive fuorilegge, condannate per questo all’illegalità e alla clandestinità; farle affiorare rendendole visibili; restituirle infine al diritto. Nessun afflato testimoniale: anche i nomi che le hanno incarnate (Cicciomessere, Pezzana, Conciani, Tortora, Coscioni, Welby, tra gli altri), hanno sempre inteso condurre battaglie politiche. Nessun atteggiamento extraparlamentare: semmai la caparbia volontà – attraverso l’iniziativa politica, il dialogo, la nonviolenza – di ottenere leggi, anche quando non si è rappresentati in Parlamento. Partito di minoranza ma non d’èlite, attraverso questo fare politica i radicali hanno dimostrato «la capacità espansiva di estendere nuovi diritti di cittadinanza a soggetti, ceti, classi sociali che ne erano esclusi».

Anche le battaglie radicali non coronate da successo restano, comunque, gravide di intuizioni che il libro di Spadaccia aiuta a riscoprire. Vale per l’obiettivo, fallito, di trasformare il Partito Radicale in una forza politica transnazionale e transpartitica, in grado di presentare «allo stesso giorno, alla stessa ora, nella stessa forma e con gli stessi contenuti, analoghi testi legislativi nel maggior numero di Parlamenti» (come recitava la mozione del congresso di Budapest del 1989). È una vocazione presente ciclicamente nella storia radicale. Già nel 1960, la Sinistra Radicale propone una «Norimberga per l’Algeria», anticipatrice delle successive campagne per l’istituzione di forme di giustizia penale internazionale. Dal 1980 e per quasi sette anni – ricorda Spadaccia – la lotta contro la fame nel mondo rappresenterà «una priorità assoluta dei nostri programmi, delle nostre attività, delle nostre stesse vite, quasi un’ossessione». Radicale è il referendum consultivo per conferire al Parlamento europeo poteri costituenti, poi votato nel 1989. E ancora: le iniziative per la promozione dell’Organizzazione Mondiale delle Democrazie, per l’ingresso di Israele nell’UE, per gli Stati Uniti d’Europa.

Il progetto ambizioso «di dar vita non a una organizzazione inter-nazionale ma a un partito trans-nazionale», concepito al Congresso di Bologna del 1988, non ha mai visto realmente la luce: nonostante il nuovo simbolo ghandiano, i consigli generali itineranti nelle capitali, le sedi di partito aperte nel mondo, il proselitismo nei paesi ex-sovietici che si affacciavano alla democrazia, lo status di ONG presso le Nazioni Unite (che farà del Partito Radicale la tribuna internazionale di minoranze oppresse e popoli non rappresentati), i caduti sul campo (Antonio Russo, Andrea Tamburi). Nell’analisi di Spadaccia, è stato uno sforzo militante generoso ma intermittente, non condiviso da tutti nella comunità radicale, insostenibile per i costi economici, privo di «una elaborazione teorica adeguata alle difficoltà che si sarebbero dovute affrontare e alle ambizioni che si volevano perseguire». Il colpo di grazia arriverà con l’esclusione dai Parlamenti europeo e italiano, che priverà i radicali di sedi politiche necessarie per incidere sui processi internazionali. Incapace di rientrare nella propria legalità statutaria, dal 2003 il PRNTT «non ha più avuto un segretario e neppure, di conseguenza, una propria vita democratica, associativa e militante».

Eppure, da questa sconfitta sono nati successi di rilievo. L’affermazione di un principio di ingerenza umanitaria che, in nome dell’universalità dei diritti umani, rompe il tabù della sovranità degli Stati nazionali, a Sarajevo come nei paesi affamati dell’Africa. L’aver anticipato la globalizzazione che, per essere governata, esige «istituzioni, poteri democratici, diritto positivo e leggi sovranazionali». Lo Statuto di Roma che istituisce la Corte penale internazionale permanente per i crimini di guerra e contro l’umanità. La politica dell’ONU per la moratoria della pena capitale, in vista della sua abolizione universale. Il riconoscimento, ancora in fieri, del diritto alla conoscenza quale nuovo diritto umano fondamentale.

Quella radicale, insomma, è stata una «politica visionaria», intesa come «capacità di comprendere con anticipo la direzione di sviluppo dei processi storici». Vale anche per le iniziative del Partito Radicale nello scacchiere italiano, ripercorse nel libro fino alle elezioni politiche del 2013. Sono tante tessere che, ricomposte, disegnano un’«alternativa radicale» tenacemente perseguita nelle diverse fasi politiche: contro il clericalismo e lo statalismo democristiani, per «l’unità laica delle forze» (contrapposta alla subalterna «unità delle forze laiche»), contro l’asfissia politica del compromesso storico, per una trasformazione delle istituzioni e del sistema politico in senso anglosassone (a partire dalla regola elettorale, specchio di come la democrazia si organizza), fino all’assunzione della illegalità costituzionale come la vera «peste italiana».

Per Spadaccia, resta valida e attuale l’analisi radicale della storia repubblicana italiana come «processo di degenerazione partitocratica delle istituzioni» verso una democrazia illiberale, approdo ora accelerato da tutti gli “ismi” del presente: giustizialismo, sovranismo, nazionalismo, populismo. A tale deriva occorre contrapporre, appunto, una radicale alternativa: quella di una democrazia possibile, «fondata sulla libertà di associazione e di partecipazione, sulla libertà di informazione e conoscenza, sulla libertà delle persone, soprattutto sul rispetto del diritto e della legge come forma suprema di legittimità delle istituzioni».

Chi raccoglierà il testimone? Spadaccia è scettico verso ciò che resta del partito della Rosa nel Pugno. Una sfiducia non dettata da ragioni personali («Non sono fra coloro che dopo una rottura cancella con facilità anche i legami e gli affetti del passato») ma da motivi politici. Un unico Partito Radicale non esiste più. La sua galassia è implosa allo spegnersi del suo sole. I suoi soggetti, dapprima separati in casa e poi divorziati con reciproco addebito, producono ancora lotta politica per grandi obiettivi: carcere e giustizia, diritti dei migranti e antiproibizionismo, libertà di ricerca e scelte di fine vita. Ma oramai, diversamente dal passato, fuori da «una strategia e da una visione generale di riforma delle istituzioni democratiche». Game over, dunque?

La prospettiva e l’intenzione di sciogliersi è sempre stato un orizzonte per un partito che si chiami radicale. Spadaccia lo testimonia: «Volevamo essere non i conservatori di noi stessi ma i protagonisti insieme ad altri di un nuovo, più vasto movimento, partito o schieramento»: socialista, liberale, laico, federalista europeo, ambientalista, libertario. Ed è probabile che Marco Pannella desiderasse, post mortem, che di sé «non restasse nulla ad eccezione della sua voce» tuttora diffusa da Radio Radicale (come scrive Massimo Teodori, Il Sole 24 Ore, 28 novembre).

Può darsi. La biodegradabilità dell’organizzazione politica radicale è tra le cose possibili, perché «l’eredità di Pannella è il suo pensiero. Il resto è volar di stracci» (così Angelo Bandinelli, in apertura del volume). Purché un simile disarmo unilaterale non travolga, però, quel «saper dichiarare e agire per gli altri senza diventare “altri”» che è sempre stata «la generosità della politica radicale» così ben raccontata da questo libro.