Il 19 maggio è stato il quinto anniversario della morte di Marco Pannella e puntualmente mi torna alla mente uno dei primi lunghi dialoghi che ebbi con lui. Sulla strada per Pisa, precisamente per il carcere Don Bosco dove avrebbe incontrato Adriano Sofri, Marco, accompagnato da Sergio Rovasio, accettò l’invito a fermarsi a cena nella mia abitazione, nella campagna pistoiese, dove lo avrebbero atteso una trentina di compagni radicali. Quando improvvisamente la serata volse al termine e Marco e Sergio si apprestarono a salire in macchina per riprendere il tragitto per Pisa, realizzai che non gli avevo parlato abbastanza.

Mi lanciai: «Marco, posso venire anch’io?» In un battibaleno mi ritrovai in macchina con un Pannella che fino a quel momento avevo visto sì e no tre volte tra comizi e congressi. Una volta arrivati a Pisa, ci sistemammo in albergo e finalmente potei parlare con quel vecchio ragazzo di strada di 71 anni. Parlammo di amicizia, amore, digiuni, e di lei, la morte. «Non vorrei cadere nella morte come si cade nel sonno, vorrei che fosse una conquista», disse. Non avrei mai creduto che 15 anni dopo avrei partecipato pienamente a quella scelta e che lo avrei accompagnato in quella conquista. È proprio vero che, come diceva lui, “la vita ha più fantasia del più fantasioso di noi”. L’indomani entrammo tutti e tre in carcere e incontrammo Adriano Sofri che conversò per quattro ore con Marco Pannella sul senso della pena, della sua detenzione, e sulle soluzioni da proporre per ottenere finalmente un’esecuzione penale secondo Costituzione. Si tratta di temi ancora oggi al centro della nostra attenzione e che lo sono a maggior ragione con la campagna del Partito Radicale per i referendum sulla giustizia e quella di Nessuno tocchi Caino per conquistare nuovi spazi di libertà costituiti da “qualcosa di meglio del diritto penale”, per usare l’espressione di Aldo Moro.

Qualcosa di meglio che possiamo ottenere grazie ai detenuti in regime di Alta Sicurezza che da tempo animano i laboratori “Spes contra Spem” e grazie ad Ambrogio Crespi la cui recente condanna giudiziaria fa quantomeno riflettere sulla necessità di riforma della giustizia italiana. In queste iniziative, Marco Pannella è presente. Lo è in particolare con uno spot – il terzo della campagna “Compresenza” ideata da Ambrogio Crespi e realizzata da Niccolò Crespi per Nessuno tocchi Caino – che trasmette la profonda forza morale e quella dei principi che Marco applicava in maniera “allegra e grave”, con la semplicità di chi sa che la cosa più naturale talvolta è andare controcorrente. Contro la corrente nei partiti o quella nella magistratura, ma non nel Paese. Occorre forza per farlo. E Marco traeva forza dai compagni, dai professionisti, dai colleghi che di volta in volta lo affiancavano. Traeva forza dalla compresenza di coloro che non c’erano più ma che lui portava con sé: Ernesto Rossi, Altiero Spinelli, Enzo Tortora, Maria Teresa Di Lascia, solo per citarne alcuni.

Durante uno sciopero totale di fame e sete nel giugno 2011, disse: «Quando te ne vai, bisogna vedere quanti sono quelli che fanno della tua mancanza una presenza». L’obiettivo era arrivare rapidamente ad accettare o respingere la grande riforma della giustizia italiana attraverso l’unico strumento possibile, ovvero l’amnistia. Per questo sfidava la morte e auspicava che «questa, quando viene, quando apre la porta all’improvviso, mi trova in modo tale che scappa perché trova ancora roba bella». Nel luglio 2015, aprì un convegno sull’universalità dei diritti umani e a favore del riconoscimento del diritto alla conoscenza sottolineando «la complessità del presente, della presenza che ci anima e la presenza di coloro che non sono più visibili ma ai quali dobbiamo tanta parte del nostro essere, del nostro essere buoni ma anche del nostro non essere buoni, del nostro essere quali siamo (…) Il nostro presente qui, che vediamo, è sicuramente la forma non visibile di presenza di coloro che sono presenti grazie ai loro lasciti, grazie a quello che lasciano e hanno immesso di animo, di spirito, di fecondità, di compimento dell’avvenire. Credo che fosse opportuno che evocassi ciò come connotato consapevole che tentiamo in questo modo di onorare, rafforzandolo e assumendoci la responsabilità di questa compresenza che vede ciascuno di noi con le grandi eredità dei quali è consapevole o no, le grandi eredità che costituiscono la nostra capacità e i nostri modi di essere viventi.» Marco non aveva mai parlato così esplicitamente di “eredità”. Continuons le combat.