Uno che ha trascorso, come me, quasi trent’anni (quelli centrali e sicuramente i migliori) della propria vita all’interno della Cgil, arrivando a ricoprire importanti incarichi, se è intellettualmente onesto è costretto a dire di sé (parafrasando, mutatis mutandis, Benedetto Croce): non posso non dirmi un po’ comunista, anche se non lo sono mai stato. Quando si lavora così a lungo con persone della cultura, della formazione e della disciplina dei militanti comunisti – magari condividendo da altri punti di vista quelle loro stesse chimere ora svanite nel nulla – si finisce sempre per assomigliarsi, per condividere valori, prassi e riti comuni e soprattutto per conoscersi e stimarsi sul piano umano.

A volte, per un socialista, diveniva insopportabile la loro convinzione di avere comunque e sempre ragione, di essere i migliori e di militare non in un partito come gli altri, ma nel Partito (senza aggiungere altro). In tanti anni ho potuto conoscere diverse generazioni di comunisti, e comprenderne i cambiamenti in rapporto all’evoluzione della politica. Paradossalmente succedeva persino che i comunisti, grazie al senso di disciplina insita nel centralismo democratico, assicurassero lungo tutta la filiera dell’organizzazione fino alla base, la tenuta delle mediazioni di vertice assunte a salvaguardia dell’unità della Cgil e di essa con le altre sigle. Purtroppo ai dirigenti comunisti della Cgil non fu sempre possibile preservare quella sostanziale dialettica col Partito (con il quale il confronto era frequente) che non era mancata in momenti duri e drammatici (si pensi alla vicenda dell’Ungheria nel 1956). In taluni casi (in particolare nelle vicende che, a metà degli anni 80, segnarono la “battaglia della scala mobile”) l’allineamento fu pressoché totale.

Ma non sono qui a scrivere sommariamente la storia dei comunisti nel sindacato. Lo ha fatto, dal suo punto di vista, Luigi Agostini in un interessante articolo su Il diario del lavoro. Le mie domande riguardano il partito, nell’anno del centenario di quel Congresso di Livorno del Psi, in cui avvenne la scissione della corrente comunista più intransigente nell’eseguire le direttive (i ventuno punti) della Terza Internazionale. Ho letto pertanto in questi mesi di carcerazione domiciliare da covid-19 diversi saggi su quell’evento, sulla storia del partito e soprattutto sulle testimonianze di ex comunisti, i quali hanno avvertito il bisogno di spiegare – come se fosse un’autoanalisi psichiatrica – i motivi per cui divennero comunisti, sostenendo poi che lo erano stati ciascuno a modo suo.

Addirittura un ex segretario ammise di non esserlo mai stato. In queste letture (forse le mie non sono state sufficienti) non ho trovato una spiegazione di come sia stato possibile che un partito come il Pci, tutto sommato in discreta salute nel 1989, abbia deciso di cambiare identità (il 12 novembre alla Bolognina) pochi giorni dopo che a Berlino (il 9 novembre) era caduto il Muro che rappresentava simbolicamente la divisione del Vecchio Continente scaturita dalla Seconda guerra mondiale. Ricordo che in quella storica giornata era in corso un’iniziativa della Cgil a Firenze a cui partecipavano tanti quadri e militanti. Le compagne e i compagni, la sera, si appostarono davanti agli schermi televisivi a seguire le scene della demolizione a furor di popolo. Alcuni piangevano; ma non erano lacrime di dolore, ma di commozione; come se anche loro si sentissero liberi di uscire. Eppure era in corso (venti anni dopo quello di Alexander Dubcek) il tentativo di Michail Gorbaciov di salvare il salvabile del comunismo, all’insegna della perestrojka e della glasnost. A questo punto, a me viene naturale un altro ragionamento: il marxismo restava pur sempre un pensiero solido che aveva preceduto e ispirato la Rivoluzione d’Ottobre.

Molti osservatori hanno scritto che Marx ed Engels non avrebbero mai pensato che le loro teorie – elaborate con riferimento all’Inghilterra della rivoluzione internazionale – trovassero espressione in un Paese arretrato ed agricolo come la Russia zarista. Ma quando a dominare è l’ideologia anche la realtà deve adattarsi. Ricordo di aver letto da ragazzo un libro di propaganda sovietica nel quale l’autore si arrampicava sugli specchi per dimostrare che in verità la Russia era una nazione fortemente industrializzata. Ma la storia ha dato ancora una volta ragione a Filippo Turati che definì il bolscevismo russo “una forma di nazionalismo orientale”. Ma come scrivono Marcello Flores e Giovanni Gozzini (nel loro saggio Il vento della rivoluzione Glf 2021) con riguardo ai partiti comunisti europei, resta il fatto che «la fine dell’Unione sovietica risponde cronologicamente alla loro stessa fine sostanziale, magari attenuata da cambi di nome o stentate sopravvivenze».

Nello stesso tempo – fanno notare gli autori – il comunismo non sparisce nel mondo, tanto da essere alla guida della Cina popolare, la nazione che compete con gli Usa non solo sul piano militare, ma anche su quello economico. Eppure – aggiungiamo noi – nessun ex comunista italiano oserebbe assumere come punto di riferimento l’ex Impero celeste ora divenuto rosso e potente. Per non parlare della Russia di Putin. Il Pci nel suo travagliato affrancarsi dalla osservanza moscovita (vuoi con le vie nazionali al socialismo, con l’eurocomunismo e con la terza via) non aveva mai messo in discussione né la portata storica della Rivoluzione del 1917, né l’obiettivo della conquista di un sistema diverso dal capitalismo. Enrico Berlinguer – durante la famosa “tribuna politica” del 15 dicembre 1981 in cui aveva evocato l’esaurimento della «spinta propulsiva», non si era limitato a confermare che «gli insegnamenti fondamentali che ci ha trasmesso prima di tutto Marx e alcune delle lezioni di Lenin conservino una loro validità»; ma, nello stesso tempo, il tema sul quale il Pci concentrava la sua elaborazione rimaneva «quello della via al socialismo e dei modi e delle forme della costruzione socialista in società economicamente sviluppate e con tradizioni democratiche quali sono le società dell’occidente europeo».

Pochi anni dopo il suo successore Alessandro Natta nella relazione di apertura del XVII Congresso il 9 aprile del 1986 aveva esordito con orgoglio: «Noi siamo qui riuniti per trarre le conclusioni di una esperienza democratica che ha pochi paragoni possibili. La discussione che ci ha impegnati per molti mesi nei congressi delle sezioni e delle federazioni – e ancor prima di essi – ha appassionato non solo i comunisti, ma moltissimi che comunisti non sono; altri che duramente ci avversano». Poi Natta aveva aggiunto: «Ci si è detto che noi comunisti dovevamo ripensare noi stessi; e qualcuno ha dubitato o dubita che fossimo capaci di farlo. Abbiamo dimostrato e stiamo dimostrando il contrario, ammenocché non si intenda la pura e semplice nullificazione più che del nome della cosa stessa che noi siamo e rappresentiamo». Alla luce degli eventi del 1989 e degli anni immediatamente seguenti, il Pci vedeva confermate le sue critiche al “socialismo realizzato”, ma non smentiti i valori del socialismo (che fino poco tempo prima erano al centro della ricerca di strade nuove). Ciononostante, non si limitò a gettare a mare i rapporti di fratellanza, si affrettò anche a dismettere un ideale che aveva attraversato i secoli ed aperto alla mitica classe operaia l’ingresso nella storia.

Avrebbe potuto ricomporre la scissione di Livorno nel nome di un socialismo democratico che aveva smesso da tempo di promettere palingenesi nei rapporti politici e sociali, ma che era pur sempre l’erede di una grande tradizione. La sequela di nomi adottati (Pds, Ds) dopo l’abiura di quello imposto dalla III Internazionale, hanno, nei fatti, accompagnato non una trasformazione, ma la perdita di una identità definita. Quello che fu il partito di Gramsci, Togliatti, Longo e Berlinguer si è consegnato agli ex democristiani e con loro ha fondato il Partito democratico, un novello Candide che si è accorto di una banale verità: si vive sempre nel migliore dei mondi possibili. Perché prendersi la briga, allora, di cercarne uno nuovo e differente? In breve: un partito spretato. Cresciuti alla scuola del “pensiero forte” del Capitale, gli ex comunisti si orientano ora col Manuale delle Giovani Marmotte.

Anni or sono mi capitò di ascoltare dalla voce di Massimo D’Alema la spiegazione dei motivi della fuoriuscita del Pci da se stesso. Il lìder Maximo paragonò il suo partito a una nobile tribù pellerossa costretta ad abbandonare la valle in cui aveva sempre abitato. L’esodo le sarebbe stato assai più agevole attraverso il passo. Ma il valico era controllato da Bettino Craxi. Pertanto la tribù, per evitare di sottoporsi a quella dogana, aveva deciso di compiere un lungo giro attraverso le montagne e da lì raggiungere i nuovi pascoli. In sostanza, un’altra fuga, un altro cambio di identità. Come ha scritto Francesco Cundari su Il Foglio, il Pd è restato fedele all’idea del socialismo in un solo Paese. Purché sia all’estero e non in Italia.