Con il crescente rinvigorirsi della pandemia, riemerge il problema – mal posto e malissimo risolto – della conduzione in sicurezza delle attività giudiziarie e della celebrazione delle udienze. Mi riferirò a quest’ultimo aspetto, per le sole udienze civili. In primo luogo, restano profondissime perplessità circa le condizioni strutturali del Palazzo di Giustizia napoletano, sviluppato in verticale su circa 30 piani, al Centro Direzionale. Perplessità serie, riguardanti l’areazione e l’uso necessario degli ascensori, sulle quali, ad oggi, nessuna specifica e argomentata rassicurazione è stata fornita, nonostante ci attendano i mesi più duri della pandemia e l’attivazione del riscaldamento dei locali.

In secondo luogo, proprio per ridurre l’affluenza di pubblico in Tribunale, il legislatore ha pensato di prorogare al 31 dicembre 2020 l’utilizzo della trattazione scritta (uno scambio di note fuori udienza: nessuno più si guarda e si parla) e il ricorso alla connessione da remoto (col dispositivo in uso ministeriale Microsoft Teams) per la quale, con soluzione tardiva ma di buon senso, si è stabilito che non sia necessario, per celebrare un’udienza valida, che il giudice sia fisicamente in ufficio (se la ragione è la sicurezza, lavoreranno in sicurezza i giudici, gli avvocati e le parti. E, speriamo, il personale amministrativo, poiché ora, cioè a distanza di mesi, si sta implementando lo smart working per quel personale. Incredibile: come se la ripresa della pandemia in autunno fosse evento imprevedibile prima dell’estate).

La terza considerazione riguarda l’utilizzo dell’udienza da remoto: non c’è che dire, è un mezzo non neutro. Voglio dire che soppiantare il contatto fisico e la discussione orale con la presenza mediata dagli schermi dei computer implica mutazioni significative della percezione della realtà che andrebbero studiate con grande rigore, se vogliamo che diventino soluzioni stabili e non solo eccezionali. Ma anche a volerle utilizzare come soluzione eccezionale, resto semplicemente basito per il fatto che, dopo lo scompiglio di marzo e aprile – con una politica della giustizia sostanzialmente inesistente – dopo l’estate, dopo la ripresa di settembre, ancora non sia stata valutata una regolamentazione scritta, uniforme e generale della celebrazione dell’udienza da remoto, in un apposito decreto legge oppure attraverso una modifica integrativa delle norme del codice di procedura civile.

La cosa ancora più sconcertante è che a questo disordine mentale, politico e normativo ci stiamo abituando in uno scivolamento inconscio verso la salvaguardia della nostra pelle (più che legittima aspettativa di tutti, intendiamoci) che non è più in grado di rivolgere uno sguardo d’insieme e storicizzante su quanto sta accadendo. E di tutti i bei dibattiti che insorsero in primavera – l’equo processo, la celebrazione pubblica dell’udienza, l’articolo 6 della Convenzione europea – si smarriscono le già evanescenti, sulfuree tracce. In questo clima di smarrimento ci siamo tutti: ogni giorno ho la sensazione di un mondo – quello della giustizia – abbandonato a se stesso, un vascello fantasma in cui avvocati e giudici e personale amministrativo navigano alla giornata e a vista. Faccio un esempio concreto e significativo: l’attuale normativa (articolo 221 della legge 77/2020) prevede che il giudice civile possa stabilire d’ufficio (cioè senza richiesta di parte) la trattazione scritta, mentre per la connessione da remoto ha bisogno di un’istanza di parte.

Ebbene, finora non ho ricevuto un’istanza di parte in tal senso. Tuttavia, quando poi in udienza chiedo se vada bene celebrare l’udienza da remoto, quanto meno per scambiarsi contestualmente e oralmente due parole, per fare il punto, per realizzare insomma il contraddittorio pur se attraverso gli schermi di un computer, gli avvocati hanno sempre aderito con entusiasmo. Insomma, non sappiamo bene chi deve fare cosa, a chi piaccia e a chi dispiaccia, come se tutto fosse precipitato nel prodursi incerto, quasi omertoso di una prassi quotidiana.

Anche questo prostra psicologicamente le categorie. E se avessimo una classe politica, anche a questo penserebbe: la giustizia è stata, ancora una volta, lasciata a se stessa, senza una programmazione seria che, certamente per il settore civile, sarebbe stata possibile quanto meno a partire da maggio e avrebbe anzi fornito un esempio di azione amministrativa efficace e, soprattutto, giusta. Non si tratta di Napoli, Milano o Reggio Calabria: si tratta della conduzione giusta della giustizia civile in Italia, in un tempo eccezionale che probabilmente lascerà tracce non provvisorie. Ma la giustizia giusta non è preoccupazione – a quanto pare – “sistematica”.