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Tabarelli: “Se l’industria andasse bene il quadro sarebbe anche peggiore. È un mondo che impedisce di ragionare sul breve periodo”
Il prezzo del gas che sfiora i 50 euro al Mw/h apre una nuova crisi energetica, figlia della guerra

Davide Tabarelli, Presidente e fondatore di Nomisma Energia, ricorre all’iperbole per spiegare questa nuova crisi energetica. Ieri il gas alla Borsa di Amsterdam ha chiuso a 48,72 €/MWh. Poco sotto la soglia psicologica dei 50 euro. «La carenza energetica è la figlia di una tragedia: la guerra. Per uscirne servono pace e aumento della produzione».
Professore, siamo come nel 2022?
«Queste sono scosse di assestamento che rimandano sì al terremoto del 2022, ma erano del tutto prevedibili. Lo stop al gas russo dal primo gennaio era atteso. La stagione invernale pure. Il mercato del gas funziona così: quando c’è scarsità di riserva, i prezzi si alzano».
Le rinnovabili non riescono a colmare il gap?
«Come ho detto, siamo in inverno. Quindi poco vento e ancora meno sole. L’idroelettrico funziona. Ma solo per alcuni mercati. In territori montuosi e ricchi di laghi come Italia, Francia e Austria, questa fonte dispone di una certa efficienza. Ma la Germania è tutta piatta. Lì, l’idroelettrico ha poco senso. C’è poi il nucleare. In questo caso, si sta ripetendo la crisi di qualche anno fa, quando la manutenzione delle centrali francesi incise sull’offerta».
In più c’è l’industria in affanno.
«Appunto. Se ci fosse una domanda energetica più solida da parte dell’industria, saremmo già in blackout. Se il Pil crescesse al 2%, per risolvere i problemi di occupazione e di competitività con Usa e Cina, i prezzi sarebbero oltre i 70 euro».
Ecco, Trump: adesso che succede?
«È una rivoluzione da ridimensionare. Con il suo “Drill baby drill”, Trump più non fa che continuare solo un trend industriale già avviato da Bush Jr e Obama. Il fracking inizia nel 2005. Dov’è la novità? Che poi, gli idrocarburi coprono il 60% della domanda globale di energia. Tutti trivellano!».
Potremmo farlo anche noi?
«Ma noi già trivelliamo. Lo scandalo è che lo facciamo pochissimo. La stupidità economica italiana, giustificata da questioni ambientali con cui gli economisti industrialisti sono sempre in conflitto, è che prendiamo il gas nel Texas quando, invece, potremmo estrarne di più in Basilicata e nel Nord Adriatico. Risparmiando in costi e in impatto ambientale. Il trasporto del Gnl infatti non è a media zero sull’ambiente».
Come ne usciamo?
«Non ne usciamo. Per mia fortuna, dobbiamo affidarci a degli esperti, o supposti tali, che spiegano come funzionano queste crisi. Battute a parte, i mercati dell’energia sono altamente finanziarizzati e con dei tempi lunghissimi. Caratteristiche li espone alla facile accusa di speculazione. Ricordiamoci però che, durante il lockdown nel 2020, il gas era crollato a 6 euro. E tutti parlavano di efficienza. Oggi si dice che i mercati fanno affari sulle spalle dei consumatori. Non è così».
E poi ci sono i tempi lunghi.
«Appunto. Il gas viaggia su tubi che risalgono ai tempi di Brežnev. Stiamo parlando di un’industria di grandi capitali, enormi dimensioni e interessi geopolitici. È un mondo che impedisce di ragionare sul breve periodo».
D’altra parte una qualche soluzione oggi va trovata. Per esempio, si parla di prezzo unico dell’energia e interrompibilità. Sono opzioni valide?
«Intendiamoci, i prezzi sono numeri estetici scritti su un pezzo di carta. Potremmo inventarci di tutto, fino addirittura creare un mercato in cui uno decide da solo quanto costa l’energia. Ma queste sono alchimie che non risolvono il problema».
In che senso?
«Il problema sta nella produzione e nella diversificazione delle fonti. Stiamo parlando di gas e di rinnovabili, lasciando fuori il carbone che, invece, in Cina e Usa è tornato primario. A noi restano alcune centrali più o meno funzionanti, ma per il resto abbiamo rinunciato a una commodity fondamentale. Nessuno dice di spostare in avanti la data del 2025 per disporre ancora di un po’ di carbone che, in crisi come queste, sarebbe sicuramente prezioso».
Stoccaggio, sganciamento, decupling e tutto il resto. Non serve nulla di quello che le industri chiedono?
«Certo che servono queste cose. Ma bisogna rendersi conto che la strada è puntare sugli investimenti produttivi. Estrarre gas, creare nuovi terminali e rigassificatori, riprendere il Tap. Cosa stanno facendo gli Stati Uniti se non produrre di più? Non ci arriva più gas russo? Ok, aumentiamo i volumi di Algeria e Norvegia. Estraiamo a casa nostra. Altre soluzioni, francamente, non ne vedo».
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