L'intervento
Tra governo e sindacati una liason basata sull’immobilismo
Nel 2014 Matteo Renzi, allora ‘’folgorante in soglio’’ e in piena fase di disintermediazione, accusò i sindacati di aver effettuato contro il suo governo più scioperi di quelli proclamati contro gli esecutivi precedenti. Qualcuno si prese la briga di chiedere la conferma all’Autorità garante degli scioperi nei servizi pubblici essenziali, la quale smentì le affermazioni di Renzi affermando che si erano svolte più giornate di sciopero contro il IV governo Berlusconi, poi contro quelli presieduti prima da Monti, poi da Letta. Non è il caso di fare paragoni con le agitazioni contro le politiche dei governi Conte 1 e 2. Soprattutto nei mesi ruggenti della pandemia sarebbe stato non solo irresponsabile, ma assurdo scioperare… da casa. Peraltro, il Garante aveva invitato le organizzazioni sindacali a non promuovere astensioni collettive dal lavoro nei pubblici servizi essenziali dal 25 febbraio al 31 marzo.
Non è necessario – ora dopo il lockdown – attaccarsi alla sostanziale assenza di scioperi e di iniziative di lotta per affermare che le confederazioni sindacali sono i migliori alleati non solo del governo giallo-rosso, ma dello stesso Conte. È vero che anche con il Conte 1, Cgil, Cisl e Uil non usarono la mano pesante anche se furono organizzate tre manifestazioni nazionali. Ma l’imbarazzo era giustificato dallo shock provocato dall’esito del voto del 4 marzo 2018, quando i sindacati storici si accorsero di essere divenuti un grande serbatoio per il M5S e la Lega. Come scrisse Marco Bentivogli, il populismo politico si rivelò figlio di quello sindacale. Era la prima volta che le confederazioni dovevano misurarsi con un governo che le sfidava sul terreno della demagogia: una sfida difficile da affrontare perché la maggioranza giallo-verde aveva inserito nel suo programma proposte “orecchiate” dalle rivendicazioni che i sindacati stessi avevano sostenuto nelle precedenti legislature. Dopo il primo sbandamento dovuto al timore che il tracollo delle sinistre si riversasse anche su di loro, hanno poi trovato la forza di impostare una linea politica che si frapponesse tra il governo e i lavoratori.
In sostanza, una linea che consentisse a Cgil, Cisl e Uil di svolgere un ruolo autonomo, di ottenere un lasciapassare nella “terra di nessuno” tra Quota 100 e il RdC. Non era facile conservare un profilo responsabile in materia di pensioni, prendere le distanze dal RdC e, nello stesso tempo, trovare una piattaforma che impegnasse il governo su di un terreno che fino ad ora non è stato in grado di percorrere: quello della crescita, dello sviluppo e degli investimenti pubblici. In tale impostazione, urlata nei comizi, erano inclusi anche elementi pretestuosi e strumentali: come se si trattasse di “non aderire né sabotare” le politiche del governo ma, nello stesso tempo, di prenderne le distanze, con qualche manifestazione e con puntuali comunicati-stampa di condanna e dissociazione nei confronti dei comportamenti più gravi in tema di immigrazione e sicurezza. Sul decreto dignità vi furono anche apprezzamenti e condivisioni.
La testimonianza delle difficoltà in cui versava il sindacato e soprattutto la Cgil, emergeva dalle dichiarazioni di Alessandro Genovesi, uno dei migliori sindacalisti della nuova generazione, che, in un’intervista, si domandava «se con questo voto (del 4 marzo, ndr) si evidenzia la scissione tra i gruppi dirigenti del sindacato, che hanno votato tutti per i partiti di centrosinistra, e il mondo del lavoro dipendente, anche quello pubblico, che ha trovato normale avere in tasca la tessera della Cgil e votare 5 Stelle o Lega».
Susanna Camusso, allora al vertice della confederazione di Corso d’Italia, avvertì la necessità di indirizzare una lettera agli iscritti con la quale ricordava i principi fondanti: «La Cgil ritiene indispensabile, in una situazione che consideriamo di vera e propria emergenza democratica, la compattezza dell’organizzazione e del suo gruppo dirigente, un saldo rapporto unitario con Cisl, Uil e con le altre Associazioni che con noi da sempre difendono la Costituzione repubblicana». Intanto Landini (già leader in pectore) continuava a raccontare l’incontro casuale avuto con iscritti della Cgil che avevano votato Lega, ma che manifestavano interessi e problemi che la confederazioni poteva continuare a rappresentare. Al dunque, nei confronti del Conte 1 e della sua maggioranza, i sindacati trovarono pretestuosamente rifugio nel principio per cui i governi si giudicano solo per gli atti che compiono.
Il Conte 2 si è liberato di Matteo Salvini, il compagno di viaggio più scomodo, sostituendo la Lega con il Pd. Ma c’è di più. Il premier ha capito che i sindacati erano disponibili a uno scambio tra il divenire interlocutori privilegiati del governo e il non aggiungersi ai suoi tanti nemici. Il fatto è che questa “liaison” si sta consolidando sul fronte dell’immobilismo. Il governo non riesce ad andare oltre la linea del “primum vivere” e a impiegare (se ne fosse capace) ingenti risorse per sanare il crollo dei redditi e supplire alla crisi dei fatturati. E anche i sindacati restano prigionieri di una logica di tutela assistenziale che rischia di ingessare le strutture produttive. Il combinato disposto, tra la proroga della cig e il blocco dei licenziamenti per tutto l’anno in corso, rischia di incanalare l’economia su di un binario morto, da cui sarà estremamente complicato tornare alla normalità. Ma questo è il modo per sprecare risorse nell’imbalsamazione di posti che non ci sono più, anziché utilizzarle per crearne di nuovi, investendo nelle politiche attive del lavoro e nella riconversione professionale.
Invece, le confederazioni si ingegneranno per ottenere dal governo un ulteriore utilizzo del sistema pensionistico alla stregua di un ammortizzatore sociale privilegiato. Pietro Ichino ha fatto un’osservazione pertinente. Prima della crisi sanitaria mancavano nel sistema produttivo e dei servizi 1,2 milioni di figure professionali che sul mercato del lavoro non si trovavano per il semplice fatto che il sistema formativo non ne garantiva l’offerta. La questione del mismatch resta un problema aperto anche se le imprese devono ridurre l’impegno produttivo e di conseguenza la manodopera in esubero; ma quelle posizioni lavorative servono anche se i macchinari funzionano a scartamento ridotto. La crisi pandemica non è “una notte in cui tutte le vacche sono nere”. Vi sono dei settori che hanno accresciuto i ricavi. Ecco perché sarebbe assurdo costringere le imprese a veri e propri “imponibili di manodopera” a spese degli ammortizzatori sociali e di una stabilità imposta per legge (mentre in un anno si sono persi già 600mila posti di lavoro a tempo determinato).
Poi c’è un altro grande tema ineludibile: a livello europeo si sta preparando, con difficoltà, una vera e propria svolta non solo sul piano economico ma anche su quello politico, perché non si destinano 2,4 miliardi in 5 anni alla rinascita, senza dare corso ad un balzo in avanti anche in vista di una nuova sovranità europea. Per ora, in questa decisiva battaglia, i sindacati stanno a guardare, senza gettare nella mischia la potenza di cui ancora dispongono.
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