Acque agitatissime nel centrosinistra, anche se gli occhi puntati sull’Ucraina per una volta mettono in secondo piano tutto il resto. Il dramma della guerra preme ai confini orientali della Ue. Ma quella tensione che in altri sistemi si traduce in un profondo sentimento di unità, da noi atterra su quel sistema polverizzato della politica antipolitica che è il lascito naturale di troppi anni in mano al populismo.

L’ex presidente Conte incarna lo spirito dei tempi: la cena con il suo suggeritore ufficiale, Marco Travaglio, e con il suo nuovo braccio destro, Alessandro Di Battista, lo ha ringalluzzito. Caricato. «Possiamo parlare di tutte le formule astratte che volete. Campo largo? Bene, cosa significa? Per me questa è una formula astratta: se significa politiche per i cittadini annacquate, io in questo campo largo non ci entro». Arrivando ieri in Senato ha fatto capire subito di aver studiato il menù del giorno ieri sera a tavola con Travaglio: «Mi interessa parlare di salario minimo, di sapere chi lo firmerà questo disegno di legge. Mi interessa sapere come intendiamo la politica e l’etica pubblica. Il contrasto dei privilegi interessa o no? I politici hanno dei percorsi preferenziali? Cosa fanno, sollevano un conflitto di attribuzione? Dicono che i pm hanno violato la Costituzione? Se questo è il campo largo non ci interessa», incalza l’ex presidente del Consiglio.

Pd e Cinque Stelle consumano una rottura senza precedenti. E se Enrico Letta in direzione dem aveva parlato di un “patto di cemento” con il Movimento, deve essere di quello che va di moda adesso, annacquato per tarare i conteggi dei bonus facciate. Di Battista non la aveva mai negato: non digerisce il fronte giallorosso e più di una volta ha criticato aspramente Enrico Letta. L’ex parlamentare grillino affida all’autorevole testata che lo ospita, Facebook, una sua opinione sulla situazione Ucraina-Russia, parlando di Letta come il segretario del partito che ha avallato tutte le guerre di invasione mascherate da missione di pace» e bollando le sue dichiarazioni come “incommentabili”. E proprio sulle colonne de Il Fatto Quotidiano, il direttore Travaglio aveva scritto un editoriale dal titolo “Non c’è campo”, in riferimento al campo largo sognato da Enrico Letta. La domanda che si è posto il giornalista è semplice: “Allearsi col Pd per fare cosa? Per salvare Renzi dal processo Open?”. Il tutto preceduto da un’osservazione di non poco conto: «Il M5s, come FdI, guadagna voti quando è solo contro tutti e li perde quando si avvicina troppo agli altri».

Tanti nemici, tanto onore. Ed ecco che Conte ripete la lezione: «Siamo isolati? Ma non siamo soli, con noi è il popolo», dice senza ricordare chi, cento anni fa esatti, si candidava a guidare il Paese con queste stesse parole. E poco importa se nell’aula della Camera il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, ce la sta mettendo tutta per squadernare lo stato dell’arte di una multilateralità messa a dura prova: noi, la Ue, la Nato, l’Onu. La diplomazia come arma del diritto, a partire da quello dell’Ucraina di aderire all’Unione Europea – opzione che vedrebbe la Farnesina favorire un percorso rapido del processo associativo. Poco importa, dicevamo. Perché Conte e i suoi danno ormai le spalle a Di Maio. E al Pd. Sono in campagna elettorale. Chiamano i giornalisti a fare capannello sotto a Palazzo Madama. “Il salario minimo serve!”, urla a un certo punto, paonazzo. «Serve a questo rider qui dietro, che mi ha chiesto un selfie. E serve a voi giornalisti: alcuni di voi guadagnano 200-300 euro all’ora». Poi capisce la gaffe e inizia a ridere. Attacca Renzi, il giorno dopo il voto del Senato sul conflitto di attribuzione per il caso Open: «Vogliono salvarlo dal processo».

Il vice presidente di Italia Viva in Senato, Giuseppe Cucca, si incarica di spiegargli la situazione. «Giuseppe Conte ha bisogno di un ripassino di diritto costituzionale: con il voto di ieri l’aula non ha impedito che Matteo Renzi vada a processo, ma si è sollevato un conflitto di attribuzione presso la Consulta in merito all’utilizzo di conversazioni del Senatore». Su altro tema, ma dello stesso tenore, la nota del senatore Pd Tommaso Nannicini: «Caro Conte, gli avvocati dovrebbero leggere le carte. Di disegni di legge sul Salario minimo non ce n’è uno solo; ci sono ancora scelte da fare in un dibattito che va avanti da decenni. Se veramente si ha a cuore chi lavora con salari da fame, meno propaganda e più concretezza». Alla faccia del cemento. Si ha la sensazione del liberi tutti, tra i giallorossi. Con Letta che prende più buffetti che applausi. «Sui referendum certo non si possono accettare diktat, neanche dai segretari di partito», avverte il dem Andrea Marcucci.

«Certo mi auguro che l’impegno del Parlamento a proseguire sulla strada delle riforme sia a buon punto. Se l’Aula però non dovesse farcela, mi auguro ancora un dibattito approfondito nel mio partito», dice sottintendendo un gran tifo per il Sì. Anche tra Azione e Italia Viva volano gli stracci. Il senatore Leonardo Grimani lascia Renzi e va con Calenda. In Campidoglio i renziani Valerio Casini e Francesca Leoncini escono dal gruppo della Lista Calenda, che accusano di aver sottoscritto uno scambio di poltrone indecente: le commissioni consiliari su Expo 2030 e Giubileo 2025 hanno visto eletti Virginia Raggi del M5s e Dario Nanni di Azione con i voti degli uni per gli altri.

Avatar photo

Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.