Donald Trump è davvero (politicamente parlando) un morto che cammina? È di moda darlo per finito perché Joe Biden, il suo rivale ex vice di Obama, ha accumulato nei sondaggi un vantaggio senza precedenti per uno sfidante del presidente in carica. Inoltre, Joe ha fatto un colpaccio scegliendo come vicepresidente una donna famosa e di colore, arcinota per essere stata una procuratrice super-manettara.

E poi, Trump è stato ferito a sangue dalla nipote, la psicologa Mary Trump, che ha venduto in una settimana un milione del pamphlet Troppo e mai abbastanza pubblicato da Simon & Schuster, di cui già si parla per un film. A cavallo di Ferragosto (festività ignota in America) su di lui si è poi abbattuta l’improvvisa e scioccante morte di Robert, il fratello minore amato e silenzioso che ha definito non soltanto fratello, ma il suo migliore amico, spirato in un ospedale di New York. Questa morte repentina ha lasciato Donald visibilmente scosso per lo stupore e il dolore: è stata la prima volta che gli americani lo hanno visto in ginocchio per motivi affettivi, peraltro comprensibili e condivisi.

Ultimo piatto del menù, il più aspro in questi giorni, la battaglia sul voto per posta su cui chiunque vinca si giocherà la vittoria, perché i voti per posta sono difficilissimi da controllare e ricontare e questo genere di votazioni già avvenute a New York e Virginia hanno provocato sempre contestazioni e liti legali. Il Partito democratico, guidato dalla speaker della Camera Nancy Pelosi, chiede a gran voce un gigantesco finanziamento federale per un trilione di dollari con cui attrezzare il sistema postale in modo tale da ricevere e contare i voti validi nell’Election Day di novembre, quando gli americani sceglieranno. A oggi americani e osservatori stranieri danno Trump per spacciato. Resta da vedere se e quanto questa sensazione sia realistica. Già nelle elezioni del 2016 nessuno, ma proprio nessuno lo dava per vincitore contro Hillary Clinton e i giornalisti televisivi si rifiutavano di credere che i numeri emersi dalle urne fossero quelli che erano.

E adesso che cosa accadrà? Proviamo ad analizzare i pezzi di questo puzzle tenendoci alla larga dai luoghi comuni e dal comune sentire. Sono ben consapevole che la maggioranza dei nostri lettori detestano Trump. Così come ai suoi tempi hanno detestato Bush padre e figlio, non parliamo di Ronald Reagan e figuriamoci Richard Nixon. È normale. È un riflesso condizionato: il candidato repubblicano, di destra, in America come in Italia, è sempre descritto (finché è in carica, perché dopo tende a diventare santo) come un pazzo, un mostro (George W. Bush con la sua guerra all’Iraq), “uno stupido mediocre attore” (Reagan). Dunque, per capire, si consiglia la prudenza. Io personalmente, i miei pochi lettori se ne saranno accorti, poiché diffido sempre dell’opinione corrente, sono abituato a sparigliare e sorprendere me stesso, perché penso sia l’unico modo per sfidare il solito precotto e vedere che cosa nasconde. Nel 2016 ero sicuro della vittoria di Trump, oggi no. Ma neanche sicuro del contrario ed ecco perché.

Lo svantaggio nei polls: è pesante, ma si sta erodendo per due motivi: la ripresa dell’economia che ha ricominciato a volare malgrado il crollo per Covid e recuperando ogni mese milioni di posti di lavoro, specialmente per neri, latini e in genere non “wasp” (angloamericani bianchi protestanti). La candidata vicepresidente donna e di colore Kamala Harris, che è stata salutata festosamente in Europa soltanto per il colore, ed infatti è “colored”, ma non afro discendente dagli schiavi (cosa che del resto non era neanche Obama) è una figura politica notissima per aver applicato la legge contro i possessori anche di soli due grammi di marijuana con più di dieci anni di carcere, spedendo in galera, specialmente a Chicago, più di mille e cinquecento neri sposati con figli, trovati con un po’ d’erba in tasca. È la donna nera più dura contro i neri, la bandiera del pugno di ferro contro la piccola criminalità che, per destino sociale, è nera. Dunque, Kamala Harris non è amata, non suscita il gioioso stupore di noi europei, ma semmai sorpresa perché è stata una nemica personale di Joe Biden che ha sempre trattato con feroce disprezzo. La sua candidatura è stata sponsorizzata dalla coppia Obama, cui si è aggiunta la meno importante coppia Clinton. Può darsi che il team funzioni, ma sarà difficile che la sola presenza di Kamala fornisca il “boost” decisivo alla candidatura Biden, il quale è stato lui stesso promotore e autore di leggi manettare contro la piccola criminalità (nera e latina) ed è per questo inviso agli elettori di Bernie Sanders con nostalgie leniniste: una quota importante di quegli elettori nel 2016 preferirono votare per il disgustoso Trump pur di non mandare l’ancor più odiata Hillary Clinton alla Casa Bianca. Che faranno stavolta quegli stessi elettori?

Stanotte, troppo tardi per riferirne su queste pagine, si è svolta la prima grande riunione dei big democratici con una sorta di convention semi-virtuale in New Hampshire mai vista finora. Si tratta prima di tutto di dichiarare formalmente che Biden è davvero il candidato ufficiale del partito dell’asino, ma più ancora la ragione del lunghissimo incontro è stata quella di provare a mettere insieme un contratto elettorale che possa convincere gli elettori di sinistra-sinistra quelli più o meno liberal, e i centristi come il super miliardario Biden che è stato più volte schizzato dal fango delle inchieste ucraine sul traffico di armi e commissioni con Kiev. Si è parlato di un ipotetico gabinetto di governo con il giovane sindaco Pete Buttigieg che partì a razzo con una interessante performance. Sapremo oggi come sono andate le cose, ma sembra chiaro che all’elettorato democratico manca tuttora un collante comune, che non sia soltanto l’avversione personale, maledetta, per Donald Trump.

La morte di Robert Trump ha improvvisamente acceso delle luci favorevoli sul presidente, rivelandone un aspetto umano, quasi indifeso e disarmato, che non gli si conosceva. È apparso disfatto e annichilito dalla morte di colui che “non era solo un fratello ma il migliore amico” e questo atteggiamento fragile e umano ha subito giocato a suo favore. Ieri pomeriggio diceva per telefono a Fox News: «Non solo era il mio più forte e silenzioso sostenitore, me era assolutamente indignato per ciò che ci ha fatto la Cina e non riusciva a darsi pace per questa cosa che ci ha fatto la Cina».

Dunque, Trump profitta della memoria del fratello appena morto per rinvigorire la sua posizione di drastica opposizione alla Cina con cui gli Usa sono in uno stato virtuale di guerra non solo commerciale, ma anche navale su un fronte armato che schiera sullo stesso fronte l’antico nemico Vietnam con il Giappone e l’India. La diplomazia americana è in festa per l’accordo raggiunto fra Israele ed Emirati, che costituisce un risultato concreto inutilmente perseguito dai suoi predecessori. “I cinesi ci hanno preso in giro per 25 anni per molti milioni di miliardi di dollari. Io ho fatto con loro affari giganteschi e li abbiamo mantenuti con la nostra generosità commerciale e ci hanno ripagato con furbizie ignobili e non ne voglio più sapere di loro”.

Sul voto postale, Nancy Pelosi ha accusato Trump di sabotare il voto on line o per posta cartacea, perché vuole ostacolare le elezioni. «Io voglio far ripartire le poste americane che sono scassate e abbiamo un sacco di investimenti in corso perché le poste americane sono un disastro. Oggi sarebbe un disastro: in Florida e in Nevada dove hanno tentato di usare la posta sono successe catastrofi e tutte le elezioni sono state contestate, lo stesso in New York e in Virginia. La Pelosi bara: vorrebbero che io appoggiassi una spesa di un trilione di dollari per riparare una catastrofe impossibile che impedirebbe ai cittadini di votare». Il libro della Trump è uno dei tipici memori americani della serie “nemici in famiglia” e sembra sia riuscito benissimo a soddisfare chi ha piacere di sentirsi confermare tutti i noti e visibili difetti caratteriali di questo presidente. Ieri ha avuto in televisione parole inaspettatamente cordiali nei confronti del nemico Joe Biden con cui avrà fra breve il primo scontro pubblico. Ha detto che Biden ha una bellissima testa a giudicare da come ridusse al silenzio Bernie Sanders. Ciò non vuol dire che lo scontro fra i due sarà morbido, anzi sarà feroce. Ma Trump conta molto – e alcuni sondaggi gli danno ragione – sulla riprovazione del ceto medio anche afroamericano per le sommosse con saccheggi e incendi che hanno seguito l’uccisione di George Floyd. Si tratta sempre della “maggioranza silenziosa” che non emerge nei sondaggi proprio perché è silenziosa, ma che poi è capace di capovolgere i pronostici, come accadde nel 2016. Trump nell’immaginario dei media è l’underdog, il perdente che tenta la rimonta, ma l’underdog nella tradizione americana ha robusti follower. La campagna presidenziale è dunque ufficialmente cominciata. Saranno o no ammessi i voti per posta? Sarà una battaglia durissima perché non si tratta di dire sì o no, ma di mettere mano al portafoglio federale e a quello del “tax payer” il cittadino contribuente che in America è considerato il sovrano da rappresentare. La partita è quindi appena aperta e la fine non è nota.

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Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.