Dov’eravamo rimasti? È questo il leitmotiv di tutte le cancellerie mediorientali, dove la precedente esperienza di Donald Trump alla guida degli Stati Uniti ha avuto un impatto non di poco conto. Aveva iniziato la sua esperienza da politico lottando soprattutto contro le “guerre infinite” degli anni precedenti, specialmente in Afghanistan, Iraq e Siria. E quando è stato alla Casa Bianca, ci sono stati l’accordo con i Talebani, l’ordine di uccidere il generale iraniano Qasem Soleimani, gli Accordi di Abramo, il riconoscimento della sovranità israeliana sulle Alture del Golan e di Gerusalemme come capitale dello Stato ebraico, lo spostamento dell’ambasciata nella Città Santa, i contratti “monstre” con le monarchie arabe nella difesa, e soprattutto l’abbandono dell’accordo sul programma nucleare iraniano.

La prima vittoria di Trump

Ora, The Donald torna alla carica. E non è un caso che sia proprio in Medio Oriente che Trump ha voluto intestarsi la “sua” prima vittoria. Da quando è stato eletto, ha messo in chiaro che avrebbe fatto il possibile per giungere a un accordo sulla liberazione degli ostaggi israeliani, su cui è tornato anche nel discorso per l’insediamento. Ha minacciato Hamas di scatenare “l’inferno”. Ha mandato in Israele e in Qatar il suo inviato, Steve Witkoff, per trattare con le varie parti in campo. Ma per The Donald ora arriva il compito più difficile: quello di gestire il cessate il fuoco. La destra radicale in Israele è già sul piede di guerra. Netanyahu, che ieri ha detto che non vedere l’ora di lavorare con Trump “per riportare tutti gli ostaggi, distruggere le capacità militari di Hamas e garantire che Gaza non rappresenti più una minaccia per Israele”, ha una maggioranza risicata. Le milizie della Striscia di Gaza sono indebolite, ma non sconfitte. E i partner arabi vogliono a tutti i costi che dal governo israeliano ci siano garanzie sul riconoscimento dello Stato palestinese. Nei mesi scorsi Trump ha avuto un avvicinamento anche con il presidente dell’Autorità nazionale palestinese, Abu Mazen. E non è da escludere che il presidente Usa voglia tentare un nuovo approccio.

Più a nord, Trump è atteso da altri punti interrogativi. L’elezione di Joseph Aoun e la nomina del nuovo primo ministro sono passi fondamentali per la stabilizzazione del Libano. Ma quello che conta, in questo momento, è anche capire il potere rimasto nelle mani di Hezbollah. In Siria, la caduta di Bashar al Assad ha aperto vari scenari. I repubblicani devono capire ancora come comportarsi con Ahmed Sharaa, il nuovo leader di Damasco che un tempo era considerato un terrorista e che non sembra piacere a Israele. Gli Usa hanno ancora delle forze in Siria che non sono prossime al ritiro (mentre è ancora in forse l’abbandono dell’Iraq). E il Pentagono deve anche riflettere su come evitare l’abbandono delle forze curde senza però arrivare allo scontro con la Turchia, alleato imprescindibile nella Nato e nel Mar Nero e soprattutto centrale anche per i rapporti con la Russia.

“Massima pressione” sugli ayatollah

E ieri, Recep Tayyip Erdogan lo ha chiarito: “È per noi molto importante continuare la nostra amicizia come è stato durante il primo mandato”.Tutto questo serve anche per capire cosa fare con l’Iran. Trump ha fatto intendere di essere pronto a riattivare la “massima pressione” sugli ayatollah, e il programma nucleare resta il grande nodo sciogliere. Il presidente Usa vuole evitare una guerra aperta. Il portavoce del ministero degli Esteri iraniano si è augurato che “gli approcci e le politiche del governo americano siano realistici e basati sul rispetto degli interessi delle nazioni della regione, inclusa la nazione iraniana”. Ma allo stesso tempo, Teheran ha già messo in atto le prime contromosse. Il presidente Masoud Pezeshkian la scorsa settimana ha incontrato Vladimir Putin a Mosca e ha firmato un’intesa che riguarda anche questioni militari e di sicurezza, oltre che il commercio e l’elusione delle sanzioni. I Pasdaran hanno svelato una nuova base navale nel Golfo Persico. L’arricchimento dell’uranio continua, così come proseguono le esercitazioni militari in tutte le centrali nucleari. L’ultimo round di negoziati ha confermato l’urgenza di arrivare a una soluzione. E ieri Netanyahu si è congratulato con il tycoon dicendo: “ Sono fiducioso che sconfiggeremo l’asse del terrore dell’Iran, avviando una nuova era di pace e prosperità per la nostra regione”. Un risiko complesso, in cui The Donald vuole rimettere al centro la normalizzazione dei rapporti tra sauditi e Israele, interrotta con l’attacco del 7 ottobre e la guerra. È quello l’obiettivo strategico di Washington. Un piano che serve non solo contro l’Iran ma anche per blindare i legami tra alleati e costruire un corridoio politico e economico che vada dall’India al Mediterraneo, escludendo Mosca e Pechino.