America
Trump si riavvicina a Putin, il paradosso del Giano bifronte che ha smesso di guardare al suo Paese
“Va bene, mi contraddico. Sono vasto, contengo moltitudini”. Non si può dire che il poeta Walt Whitman appartenga al firmamento MAGA, che domina la narrazione americana con le sue certezze e i suoi manicheismi. Eppure per quanto ci si sforzi a catalogare in questi nove mesi la presidenza Trump, questa sembra contenere contraddizioni davvero estreme. Una catalogazione che dia un qualche senso logico potrebbe essere quella offerta dalla contrapposizione fra la politica estera e quella interna.
È innegabile a questo punto che, in politica estera, lo stile e il metodo di rottura del tycoon qualche risultato lo stiano producendo. Il cessate il fuoco a Gaza, il balzo del 5% del PIL di investimenti nella difesa deciso dalla NATO, perfino la caotica diplomazia dei dazi. L’unica cosa che finora non ha prodotto risultati è questa testardaggine mista ad infatuazione con la quale il presidente americano sta perseguendo il suo riavvicinamento a Putin. Trump ha oggettivamente provocato una scossa che gli schemi imbolsiti del multilateralismo globale forse non potevano più rimandare. Al netto della sua ossessione per il Nobel per la pace e della panzana delle sette guerre da lui risolte in sette mesi, è difficile contestare che ci sia stato un cambio di passo rispetto alla passività disarmante dell’ultimo Biden.
Lo stesso vale per la politica interna, ma l’affresco qui è a tinte ben più fosche. C’è l’indebolimento inesorabile dei checks & balances costituzionali, fra una Corte suprema politicizzata e un arco parlamentare sempre più polarizzato. Ma c’è anche lo svuotamento di quelle camere di compensazione istituzionali che potevano attutire l’irruenza straripante dell’esecutivo: dalla burocrazia che Elon Musk ha gambizzato nei primi mesi dell’amministrazione, ai tagli punitivi alle università, alla militarizzazione delle presunte emergenze migratorie. La scena dei titani di Silicon Valley riuniti attorno al tavolo della Casa Bianca a baciare la pantofola di questo autoproclamato sovrano e quella delle masse adoranti MAGA alle commemorazioni di Charlie Kirk restituiscono il quadro inquietante di quella che potremmo chiamare “oligarchia plebiscitaria”.
Volendo provare a fare un po’ di ordine, si potrebbe dire che Trump adotti l’approccio di un Giano bifronte con un attivismo estero che, se non dona autorevolezza, almeno distrae dal deterioramento interno che sembra pericolosamente scivolare verso autoritarismo. Difficile dire quanto questa sia una strategia voluta. Ma colpisce quanto sia efficace con la maggior parte dei leader europei. Sempre in prima linea a criticare i diritti umani nei paesi più deboli, gli europei sono stati fino ad ora prontissimi a sorvolare gli abusi palesi che stanno erodendo la più grande democrazia occidentale, nella speranza (finora non provata) di ottenere qualche vantaggio.
Non mi sento di giudicare un governante che prova a difendere determinate filiere o industrie minacciate dalla foga tariffaria trumpiana. Così come apprezzo la necessità di adeguarsi ad uno stile che potremmo chiamare transattivo, un do ut des che dia quantomeno la parvenza a Trump di aver vinto o guadagnato qualcosa. Però dovremmo essere tutti consapevoli di quanto questa nostra accondiscendenza a tratti imbarazzante a sperticarsi per l’attivismo del Trump estero di fatto legittimi la deriva autoritaria del Trump interno.
© Riproduzione riservata







