Gender gap e pari opportunità
Uguaglianza di genere, dall’Ue un obbligo per le Università
Chi non ha visto Mona Lisa Smile? Il film patinato, con Julia Roberts – nubile, di estrazione operaia e soprattutto anticonformista – che va a insegnare Storia dell’arte in un prestigioso collegio femminile, nel Massachusetts.
Siamo nei primi Anni ’50, in piena guerra fredda, sullo sfondo, la questione dell’integrazione razziale e la paura di influenze comuniste. Ma le studentesse che frequentano il corso fanno parte dell’élite dominante, sono delle “predestinate”: non a una carriera radiosa nella vita pubblica ed economica del proprio paese ma a un matrimonio “perfetto”, a diventare mogli e madri modello.
Eppure il cambiamento – per molte di loro – è già una realtà, annidato nel decifrare il mistero del sorriso della Gioconda o in una “lettura laterale” di Van Gogh. Il matrimonio può aspettare, le pari opportunità no. Certamente il collegio femminile in cui la Roberts condusse la propria battaglia riformista non era ancora tenuto a rispettare la parità di genere: per quanto, da lì a poco, nel 1957, il Trattato di Roma che Istituiva la Comunità economica europea avrebbe introdotto la parità salariale. Uomini e donne, almeno sulla carta, dovevano essere ugualmente remunerati: lo chiedeva l’Europa. E sempre dall’Europa, negli anni, sono giunte ai paesi membri le spinte a realizzare la parità di genere nelle organizzazioni pubbliche: tutte le università europee che vogliano accedere ai fondi Horizon Europe (2021-2027) – il programma dell’Ue che finanzia la ricerca e l’innovazione – devono aver adottato a livello istituzionale un Gender Equality Plan (GEP). E dunque devono: garantire l’equilibrio di genere nelle posizioni di vertice, l’eguaglianza nel reclutamento e nelle progressioni di carriera, l’integrazione della dimensione di genere nella ricerca e nei programmi d’insegnamento.
«Nell’accordo inter-istituzionale tra Commissione Europea, Consiglio dei Ministri dell’UE e Parlamento europeo – votato alla fine del 2020 e che stabilisce l’intero bilancio settennale dell’Unione», spiega Costanza Hermanin, professoressa al Collegio di Europa di Bruges e ricercatrice all’Istituto europeo di Firenze, è stata inserita una clausola per stilare bilanci di genere e presentare una rendicontazione di genere, in tutti i settori finanziati, dall’agricoltura all’energia passando per la politica di coesione». All’Istituto europeo, Hermanin si sta proprio occupando di coordinare la formazione dei funzionari, europei e nazionali, sui bilanci di genere: «Nel corso dell’ultimo anno e mezzo è stato entusiasmante vedere come spazi di attivismo – le iniziative Half of It e, in Italia, il Giusto Mezzo – si siano prima trasformati in emendamenti approvati nel contesto di strumenti legislativi di livello europeo e poi in una reale richiesta di formazione per attuare i nuovi criteri di gender budgeting».
Cosa c’è, dunque dentro questo Piano? La strategia che ogni Ateneo intende perseguire per realizzare al proprio interno l’uguaglianza di genere e che poi costituisce il requisito di accesso richiesto dalla Commissione Europea per la partecipazione a tutti bandi Horizon Europe per la ricerca e l’innovazione. Ovvio che quello che va bene per una Università non è necessariamente la scelta migliore per un’altra. Le azioni previste nel piano sono strettamente collegate con il Bilancio di Genere, sia nella fase previsionale che in quella di rendicontazione: un insieme di attività, non isolate ma integrate in un’unica visione strategica, per identificare distorsioni e diseguaglianze di genere; implementare strategie innovative, definire obiettivi e monitorarne il raggiungimento attraverso adeguati indicatori.
Ma realizzare il bilancio di genere in enti di ricerca e formazione come le Università, secondo le indicazioni della Commissione Europea per il GEP, significa perseguire un programma di applicazione e monitoraggio costanti.
Per questo, è nato LeTSGEPs – Leading Towards Sustainable Gender Equality Plans in research institutions: coordinato dall’Università di Modena e Reggio Emilia, questo progetto europeo ha l’obiettivo di progettare e implementare i Piani di Eguaglianza di Genere per le istituzioni di ricerca e universitarie. In LeTSGEPs sono coinvolti, oltre a Unimore: l’Università di Messina, RWTH Aachen University (Germania), Mathematical Institute della Serbian Academy of Sciences and Arts di Belgrado (Serbia), Università di Tirana (Albania), Max Planck Society for the Advancement of Science di Monaco di Baviera (Germania), Spanish National Research Council e in particolare l’Istituto di Scienze Marine di Barcelona (Spagna) e Cergy-Paris Université (Francia).
Il punto davvero innovativo di questo progetto, che mira a coniugare Piani di Eguaglianza di genere e il bilancio di genere, è la proposta di metodo: «Il bilancio di genere, parte integrante del progetto – spiega la professoressa Tindara Addabbo che coordina LeTSGEPs – Dipartimento di Economia Marco Biagi, Università di Modena e Reggio Emilia – contribuisce in maniera significativa all’efficacia e alla sostenibilità dei Piani di Eguaglianza di Genere, identificando le risorse e l’impatto delle azioni, in termini di eguaglianza di genere. L’insieme delle metodologie applicate nel disegno e nella implementazione e valutazione dei GEPs puntano a conseguire miglioramenti reali e misurabili in termini di eguaglianza di genere negli enti che hanno creduto nel progetto e che guideremo nel percorso».
Sempre all’Università di Modena e Reggio Emilia, è nata IDEM, start up universitaria – partecipata da Fondazione Marco Biagi, e da JobPricing, azienda leader nella consulenza aziendale – che misura la gender equality di un’organizzazione, individua gli ambiti in cui permane gender gap e ne diagnostica le cause. L’esito di questo processo è abilitare l’organizzazione a impostare politiche e pratiche finalizzate al miglioramento della propria gender equality. Perché, per costruire organizzazioni “gender gap free”, l’eguaglianza di genere non può essere solo un obbligo burocratico ma va misurata.
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