Vite sospese per anni, impigliate nell’attesa di un verdetto
Una malattia chiamata processo: quando tutto termina assolti o condannati resta un vuoto
Esistono i “nonluoghi” insegnava Marc Augè. Spazi in cui le vite degli uomini si incrociano, si sfiorano senza tessere tra loro alcuna relazione. Ambiti in cui non si consuma neppure l’apparenza di un rapporto, in cui le individualità si contano, si sommano, ma senza che ciascuna vita abbia la minima rilevanza in sé considerata per gli altri. Trovarsi imputato in un processo, rispondere di un reato per anni e anni crea un “nonluogo” dell’anima, uno spazio indeterminato in cui la vita fluttua nella sola attesa di un verdetto.
Certo non tutta la vita, ma una parte importante di essa resta come sospesa, impigliata: aspetta, spera, dispera, impreca, blandisce, teme, minaccia. Sentimenti sprecati, emozioni indotte, paure provocate, speranze ondivaghe. Quando tutto termina, quando l’innocenza risuona si ha l’impressione di un vuoto da colmare, di nuove emozioni da sperimentare, di un guado da cercare nel fiume impetuoso della vita, forse, un po’ più a monte o, forse, un po’ più a valle e, comunque, altrove. Certo la malattia genera paesaggi interiori in gran parte simili. La guarigione lascia l’anima senza un obiettivo preciso da raggiungere e senza lo scopo verso il quale era proteso fino a poco prima ogni soffio vitale. La vita sanata dal male resta priva di quel velo di incertezza e di inquietudine che la rendeva, comunque, tenace, fragile, reattiva.
Poi tutto riprende a scorrere: un po’ più in là, in un altro punto. Nel punto in cui i rugosi e taglienti canali carsici della sofferenza restituiscono l’acqua alla luce del sole dopo averla imprigionata in mille meandri e dispersa per mille anfratti bui e tortuosi. Accettare il processo come si accetta una malattia, sperando in un’assoluzione che possa suonare come una guarigione. Ma assolti o guariti il problema resta lo stesso: dove guadare nuovamente il torrente dell’esistenza, a partire da quale roccia saltare gli argini per fare rientro a casa. L’illusione di tornare indietro, di poter volgere lo sguardo a un passato divenuto irraggiungibile e che, quindi, è definitivamente seppellito. Peggio, crogiolarsi nella retorica dell’ingiustizia, dell’autocommiserazione affidandosi al vaticinio ingannatore di una ricompensa impossibile, credendo alle sirene di una riparazione che nessuno può dispensare.
Oppure tener dritto lo sguardo in avanti e riprendere la vita esattamente nel punto in cui era stata sfregiata; senza rievocare sogni e progetti, divenuti ormai fantasmi, ma anche senza rinunciare al tentativo di riannodare fili, di ricomporre la tela, di ultimare i dettagli di un bozzetto rimasto incompiuto e senza autore per un calcio sferrato alla tavolozza dei colori. Quando uno dei più importanti intellettuali del secondo scorso, cacciato dal fascismo e privato della sua cattedra universitaria, fece ritorno – oltre venti anni dopo – nel suo ateneo trovò ad attenderlo i suoi nuovi studenti. Non erano, certo, quelli della sua ultima lezione bruscamente interrotta dai picchiatori in camicia nera. Erano altri, molti dei quali neppure nati al tempo dell’infamia. Il professore si accomodò sulla sua cattedra, la stessa di quel giorno di vergogna, sfogliò lentamente il libro di testo in un silenzio composto, alzò lo sguardo verso quei ragazzi e disse: «allora, se non sbaglio, eravamo rimasti a pagina…».
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