Se non stai sanguinando o morendo, puoi scordarti l’infermeria. Come un gioco del telefono perfettamente riuscito, in cui la frase finale arriva all’ultimo destinatario integra e mai alterata, così tra una brandina e l’altra, i giovani detenuti negli istituti penitenziari della California si passano sommessamente quella prima informazione: l’infermeria non esiste. Tra il 1990 e il 2000 il Djj, il Dipartimento di Giustizia Minorile amministrato dallo stato della California, teneva reclusi 10.000 ragazzi fra i 15 e i 24 anni. Oggi, nei tre istituti penitenziari ancora rimasti attivi, ce ne sono 800. Il vertiginoso calo del tasso di detenzione – circa il 93% – è iniziato nel 2005, dopo una serie incalcolabile di abusi, violenze e suicidi avvenuti all’interno delle strutture gestite dal governo dello Stato. Il Center on Juvenile and Criminal Justice (Cjcj), organizzazione non governativa che si occupa di monitorare le condizioni di detenzione californiane, ha pubblicato in proposito alcune testimonianze di quegli 800 detenuti, l’88% dei quali afroamericani e ispanici. Degli ultimi due rapporti della Cjcj, uno è uscito a cavallo della pandemia da Covid-19. «Per intere decadi – si legge – il sistema di gestione statale della detenzione minorile ha messo a rischio la salute e la sicurezza di giovani e giovanissimi e la crisi epidemica da Covid-19 non ha fatto altro che accelerare questo processo».

Gavin Newsom, governatore democratico della California, poco dopo essere stato eletto – un anno fa -, annunciò che entro la fine del suo mandato avrebbe interamente riformato il sistema di giustizia minorile dello Stato, arrivando a prospettare la chiusura degli istituti penitenziari. Poi la pandemia e i 54 miliardi di dollari di deficit hanno accelerato la necessità di tagliare i costi e anche, precisa Newsom, di occuparsi della salute dei minori. Ogni anno la California spende 300.000 dollari per ragazzo detenuto in condizioni che lo stesso governatore definisce “terribili”. Sembra sia servita una pandemia, afferma da San Francisco Renee Menart del Cjcj per rendere improvvisamente insopportabili le condizioni in cui vivono quei minori. «Che il carcere, specialmente questo carcere, sia controproducente per persone che in media hanno 19 anni non è più oggetto di interpretazione. Il 76 % di esse infatti viene riarrestato, il 50 % viene incriminato per un reato diverso dal primo e il 26 % ritorna in carcere dopo appena tre anni dalla liberazione».

In gran parte degli Stati Uniti il numero di adolescenti condannati per reati gravi è sensibilmente diminuito, passando dai 2.8 milioni del 1998 agli 800.000 del 2015. Nonostante questo, molti stati americani hanno continuato a costruire nuovi penitenziari, aspettandosi un costante aumento di reati per mano di minorenni. L’attenzione, politica e mediatica, posta sulla violenza degli adolescenti (soprattutto afroamericani) è stata fomentata negli ultimi decenni dal riproporsi di teorie bio-deterministe che puntavano a colpevolizzare il minore in quanto più propenso a commettere reati violenti. Pubblicazioni sistematicamente smentite impiegate in maniera strumentale per giustificare la costruzione di nuovi istituti penitenziari, la mancata chiusura di quelli rimasti vuoti e il costante aumento di risorse per la polizia.
Marsha Levick, avvocato minorile e cofondatrice del Juvenile Law Center, denuncia come le misure di contenimento da Covid-19, in alcuni penitenziari, siano state utilizzate come giustificazione inevitabile di un abbrutimento della pena. «Per controllare l’epidemia interna, alcuni ragazzi sono stati lasciati in isolamento dentro una cella senza alcun tipo di attività di sostegno o di riabilitazione. E poiché – continua Levick – la detenzione viene politicamente incentivata proprio per il suo carattere ‘riabilitativo’, mi chiedo se tutto questo sia costituzionalmente accettabile».

Essere un adolescente afroamericano o ispanico non determina di per sé l’eventualità di compiere un reato, ma sicuramente influisce sulla possibilità che questi venga condannato a una pena detentiva. «E tutto ciò – precisa al telefono l’avvocato del Juvenile Law Center – avveniva ben prima che in America scoppiassero i disordini legati all’uccisione di George Floyd». «Se un ragazzo bianco trasgredisce la legge – conclude Marsha Levick – ha molte meno probabilità di finire in carcere. E se è vero che praticamente tutti i minori che commettono reati, a prescindere dal colore della pelle, vivono condizioni di forte disagio socioeconomico, è altrettanto vero che i minori afroamericani o ispanici hanno meno possibilità di accedere a misure alternative alla detenzione».

Se entro il 2023 il governo della California dovesse veramente chiudere le tre prigioni minorili, rimarrebbero quelle delle contee. La contea di Los Angeles ha da sola, circa 150 istituti penitenziari. Ecco perché, precisano gli attivisti della Youth Justice Coalition, se i fondi, prima destinati alle tre prigioni statali, venissero semplicemente destinati a quelle locali, il governatore avrebbe solo spostato il problema. Le risorse devono servire per “deistituzionalizzare” la giustizia minorile e per tutto ciò che c’è fuori dal carcere, per la scuola, per la comunità e per la strada.

«La povertà e la violenza, non la conformazione del cervello, mandano i ragazzini in galera». In uno dei rapporti pubblicati dal Cjcj si legge che il grande mistero americano non è tanto cosa ci sia di sbagliato in questi adolescenti, ma quanto invece ci sia di giusto nel lasciarli vivere in un paese dove la possibilità di essere uccisi da un’arma da fuoco è 25 volte più elevata che in qualsiasi altro luogo. Quando – nel 2010 – venne chiuso un riformatorio in Florida, sulle prime si sosteneva fosse per problemi economici. Era la Arthur G. Dozier School for Boys, considerato un modello di educazione e disciplina. Solo dopo vennero scoperti 55 corpi, per lo più afroamericani, in un campo clandestino. Alcuni giovani detenuti, però, riuscirono a scappare e a raccontare.

«Il riformatorio accompagnava alla porta i ragazzi il giorno del loro diciottesimo compleanno, con qualche spicciolo e una rapida stretta di mano. Liberi di tornare a casa o di trovare la propria strada in un mondo incurante, probabilmente deviati su uno dei binari più difficili della vita. I ragazzi arrivavano alla Nickel già guastati in vari modi, e subivano altri danni mentre erano lì. Spesso li attendevano passi falsi più gravi e istituti più spietati. I ragazzi della Nickel erano fottuti prima, durante e dopo il periodo che trascorrevano in quel posto, se si voleva descriverne la traiettoria generale» (Nickel di Colson Whitehead).